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FFF a Venzone: visto a modo nostro

Dov’ è la prima fila, chiede qualcuno entrando, un po’ seccato che i lavori di allestimento non siano ancora finiti. Invece sono ben che finiti, essendo la sala strutturata deliberatamente informale, policentrica, destrutturata. Vabbè, per una volta niente favore di telecamere; ma noi, diversamente giovani e pure un po’ sovrappeso, gioiamo segretamente: per una volta niente inquadrature di rughe e doppio mento. Bene, da subito si percepisce il piacere di giocare, con i relatori che cercano il loro palco, gli ospiti che guardano incuriositi. “Facciamo che giochiamo al futuro”,

sembra la parola d’ordine. Quindi niente file, ci si dà di schiena, e i sedili sono senza appoggi, ognuno guarda dove gli sembra di avere miglior vista sull’insieme. Forse un brivido di solitudine, in cui ognuno sente che dovrà cercare la sua strada? Subito Da Pozzo, il presidente Cciaa  (c’è ancora qualcuno che non associa al suo nome la carica, certamente qualcuno che perlomeno non sbircia i quotidiani locali dove è sempre presente, merito anche di un’addetta stampa con i controfiocchi.

“Dal made in Friuli siamo passati al Making Friuli”, esclama più che soddisfatto di questo FFF, Friuli Future Forum. Palazzo storico e scenografia futuristica per parlare del mondo del cibo. Mentre sugli schermi scorrevano trailers di film cibeschi con Charlie Chaplin. Molto ci piacque il prof. Bernardi che da valente sociologo dissertò su un tema ormai di valenza filosofica: il cibo che ci identifica è quello che ci differenzia. Mondializzazione, accelerazione della mobilità umana inimmaginabile, con la cultura che ha bisogno di una rielaborazione più lenta. Non solo ma l’adattamento alle nuove sollecitazioni può avere due velocità (veloce fu l’adattamento al mais, lento quello alla patata).

Duemila venti: un orizzonte temporale abbastanza lontano da richiedere immaginazione, ma abbastanza vicino da essere rilevante per noi. Per riassumere l’intervento in una frase: “il mondo è plurale, perciò dobbiamo tutelare quanto abbiamo ricevuto come tradizione dagli avi”. Si mangia infatti non tanto per fame, ma per rispondere a un bisogno di appartenenza.

Molto divertì con le seduzioni delle immagini e del racconto il catalano Marti Guixe, che non sa cucinare , a cui non piace cucinare, ma che si ritiene un valente food designer. Per noi più che valente, i suoi oggetti edibili sono pieni di fantasia, creano situazioni sorprendenti, dal cibo sponsorizzato (la tortilla con sopra la CK del noto stilista usa) alla tecno tapa o bruschetta destrutturata (un pomodoro che all’interno contiene il pane, l’olio, il sale e si mangia in un sol boccone come perfetto finger food), dalla nebbia di gin e tonic (così ai party non serve sempre avere il bicchiere in mano) al food karaoke, dal ristorante in outsourcing alla panchina ristorante.

E ancora sul palco il professor Soda della Bocconi (dal prodotto al processo è stata la sua esortazione); la case history di Andrea Illy; Davide Rampello della Triennale con la prposta del temporary store a Milano (approfondimenti su altro articolo nel sito). Conclusioni di Walter Filipputti che preannuncia altri studi e incontri.

Sotto negli spazi del palazzo del comune tutti si tuffano su un buffet dal menu molto chic e molto local: tre tipi di prosciutto (il cotto in crosta di Dentesano, il crudo di Sauris e un San Daniele Dok Dall’Ava di 36 mesi) e tre vini bianchi, con la Ribolla Gialla di Collavini al top delle preferenze.

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