La birra artigianale italiana è maggiorenne

La birra artigianale italiana diventa maggiorenne. Con cinque innovazioni, 350 birrifici e oltre 1.000 etichette abbiamo smesso di imparare dagli altri. Italiani popolo di navigatori, di amanti del vino e della pasta. Sì, ma dovremmo anche aggiungere: italiani amanti della birra artigianale. Eh sì, perché è ormai innegabile che l’estro creativo che ci contraddistingue nel mondo – e quel famoso “Made in Italy” ne è il marchio – ci ha portato a essere considerati come uno dei maggiori produttori di birra, non tanto per la quantità, ma piuttosto per la qualità.
Diciotto anni e cinque innovazioni. La giovane-Italia-brassicola si affaccia nel mondo del luppolo nel 1996, dunque, se facciamo il paragone con “i Paesi che contano” come Germania, Belgio, Regno Unito, Olanda e Irlanda non è molto tempo fa. Verissimo, ma il “da quanto” si fa birra va bilanciato con il “come la si fa”. Gli americani, per esempio, hanno cominciato a “creare” birra nel 1975 con Michael Jackson – no, non è il cantante ma un omonimo giornalista – che ha dato il via a quella che loro chiamano “renaissance”, e ha permesso agli Stati Uniti di diventare il primo produttore di birra al mondo. Da noi, in pochi anni, i nostri birrifici hanno inanellato numerose vittorie e ricevuto molti riconoscimenti internazionali, non solo per la qualità del prodotto realizzato, ma anche per le svariate novità che il nostro Paese ha mostrato di saper ideare. L’Italia, infatti, quest’anno è tornata dalla World Cup Beer – in sostanza i mondiali della birra che si svolgono ogni due anni e con migliaia di etichette in competizione – con quattro medaglie: tre d’argento e una di bronzo. Giusto per dire.
Inoltre, la comunità internazionale ci riconosce ben cinque innovazioni, prima su tutte la birra alle castagne a cui va il merito di essere stata la prima tipologia a contraddistinguerci all’interno del panorama birraio. Un prodotto nostrano che, mediante svariati e diversificati trattamenti, conferisce un particolare sapore e morbidezza unico al mondo. Ora ne produciamo tantissimi tipi come la “Castagnale” del reatino Birrificio del Borgo, o la “Bastarda doppia” del Birrificio Amiata fatta con castagne e alloro.
Dopo di che, in Italia la legge permette di fare birra con il 40% di cereali alternativi al malto d’orzo, questo perché tutto quello che ha un contenuto zuccherino può essere un fermentescente. Che significa? Semplice, Tommaso Ponzo di Spizzicaluna Brewing, ci spiega che di conseguenza possiamo utilizzare la segale, il riso, il frumento, il mais, l’avena o il farro anziché l’orzo. Come per esempio la “B.I.-Weizen” al frumento del Birrificio Italiano, la “American Rye” del Birrificio Leonessa che è fatta con la segale o la “Saggia” dell’assisano Birrificio dell’Eremo prodotta con l’avena.
La terza innovazione – le Barley Wine – è da ricondurre meramente all’estro creativo italiano. Perché anche se non era propriamente una nostra tipologia, la sua profonda reinterpretazione, unita alla secolare cultura del vino, ha reso possibile la creazione di un nuovo stile tutto italiano. La birra si divide in bassa e alta fermentazione. Alle alte fermentazioni si ottiene un lievito dello stesso tipo di quello del vino, perciò possiamo utilizzare tutta la nostra conoscenza enologica per creare delle birre estremamente corpose e dal profumo e sapore intenso. Per esempio la “Salty Dog” di Toccalmatto affinata in botti di whisky torbato, o la “Xyauyù” del Birrificio Baladin basata su uve rosse o anche la nuova “Grape Ipa” dei lodigiani della Brewfist, cioè una Ipa – Indian Pale Ale – fatta con mosto di vino bianco.
La quarta sono le Saison e anche qui vale lo stesso discorso fatto per le Barley Wine. Quella che viene denominata “Saison” non è una tipologia nata in Italia, bensì uno stile birraio stagionale – prodotto quindi solo in alcune stagioni dell’anno, in questo caso solitamente in primavera-estate – del Belgio meridionale, più precisamente della Vallonia. Noi non abbiamo fatto altro – si fa per dire – che interpretarla a modo nostro rendendola unica. E allora vai con le più svariate erbe e spezie, come lo zenzero, il coriandolo, la camomilla, il pepe, lo zafferano, le arance, il miele, e ancor di più. Ora, l’applicazione di questo stile realizzato con le nostre materie prime si sta affermando nel mondo. Abbiamo così, tra le tante, etichette come la “New Morning” del Birrificio del Ducato, la “Dui E Mes” del Birrificio Pausa Caffè, la “Brighella” del Birrificio Lambrate o la “Sibilla” di Toccalmatto.
Infine, l’ultima tipologia, e forse la più particolare di tutte, è l’archeobirra. Un coraggioso esperimento nato dalle menti di tre dei più famosi brassicoli a livello mondiale: due italiani e un americano. Teo Musso del Birrificio Baladin (nella foto), Leonardo di Vincenzo del Birrificio del Borgo e San Calagione del Dogfish Head Brewwey sono i pionieri dell’archeologia della birra. Grazie anche al contributo di alcuni archeologi molecolari hanno ripreso, all’interno di orci etruschi ben conservati, i lieviti e i residui di birra che vi erano stoccati, li hanno reidrati, li hanno clonati, e poi hanno fatto fare da alcuni tornitori delle riproduzioni di questi vecchi orci – delle grandi anfore per intenderci – in cui fermentava la birra. In questo modo sono riusciti a riprodurre quella che era la birra etrusca permettendoci così di bere, come un salto nel passato, la stessa bevanda dei nostri avi.
Estro e creatività. In sostanza il successo che la birra artigianale italiana sta riscuotendo nel mondo è da ricondurre all’estro e alla creatività che ci contraddistingue. I 350 birrifici sparsi per lo stivale non hanno seguito i classici stili – come ad esempio i belgi e i tedeschi – proprio perché non avevano una storia brassicola. Perciò mentre gli altri hanno da sempre continuato a produrre secondo le loro storiche tipologie, i birrifici nostrani hanno dovuto inventare e reinterpretare. Col senno di poi i risultati sono tutti a loro favore. Forse la chiave del successo, che ci ha portato ad avere più di diecimila etichette, è il diverso approccio al mondo del luppolo. E questo grazie anche alla passione per la gastronomia e alla bravura nella cucina, infatti Tommaso ci spiega che quando si fa la birra il termine tecnico è «cucinare la birra».
Ma cos’è la birra artigianale? La differenza principale tra la birra commerciale e quella artigianale è che la seconda non è pastorizzata, e di conseguenza «non si uccidono i sapori». Tuttavia, è vero che saltare la fase di pastorizzazione permette di mantenere inalterato l’interno contenuto organolettico, ma così facendo non si uccidono neanche i batteri. Per ovviare a questa problematica è necessario utilizzare ingredienti di prima qualità e applicare delle metodologie estremamente accurate. Con la birra artigianale si punta più all’eccellenza che alla quantità e alla durata di conservazione del prodotto. Per esempio vi siete mai chiesti perché la birra di qualità – e anche il vino – è conservata all’interno di bottiglie di vetro scuro? Il prodotto artigianale non deve essere esposto a un’elevata quantità di luce perché non è stabilizzato, di conseguenza è richiesta molta attenzione nella fase di stoccaggio. La birra artigianale non è una bevanda dissetante, bensì un’emozione che ti permea sia a livello olfattivo che gustativo. Inoltre, come si evince anche dal termine “artigianale”, è un prodotto che nasce dallo “sporcarsi le mani” e da processi non automatizzati. Difatti, anche se della stessa etichetta, ogni birra è sempre diversa l’una dall’altra e ha sempre una sfumatura che la differenzia, come una sorta di opera d’arte.



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