Spaghetti all'acqua di mare

La lettura della domenica di qb. Ad Amalfi il mare era il nostro cibo. Da ragazzi prima e da giovanotti poi ci siamo nutriti di mare. Alla spiaggia intingevamo il tarallo nell’acqua salsa. Bagnato diventava morbido e saporito. Aspettavamo l’onda e allungavamo la mano. […] Più tardi, al buio, per non farsi vedere, arrivavano le donne a riempire le piccole anfore di terracotta. Entravano in acqua a piedi scalzi, si attorcigliavano la gonna sopra le ginocchia e immergevano la brocca che si riempiva con un rapido gorgoglìo. Ogni tanto arrivava una contravvenzione: era proibito per legge attingere acqua dal mare. Ma, alla fine, il maresciallo della Finanza cedeva alle preghiere e ai segni di rispetto, cancellando la multa. L’importante era che in casa non mancasse mai l’acqua di mare. Cuocere gli spaghetti mescolando una tazza di acqua salata all’acqua dolce significava dare loro un vigore tale che, conditi con aglio e olio, pomodoro, prezzemolo e peperoncino, non solo mantenevano una cottura “al dente”, al punto che ogni spaghetto faceva rumore cadendo nel piatto, ma acquistavano un sapore di pasta condita col sugo di pesce. Difatti il vero nome di questa minestra è: spaghetti al pesce fuiuto, cioè al pesce fuggito. Una perla della cucina povera. In: AFELTRA Gaetano, Spaghetti all’acqua di mare. Salerno (I), Avagliano, 1996
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