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Verza, verzotto e verzuttino

verza in festaverza in festa

Verza, verzotto e verzuttino. La verza è un cavolo, tanto che il suo nome e cognome sarebbe "cavolo verza". Il nome scientifico, più ostico, è Brassica oleracea sabauda. Non sto a spiegarvi le prime due parti del trinomio; il terzo, sabauda, a molti lettori ricorderà quella che fu una casa regnante sulla quale non possiamo dare giudizi in questo contesto. Chi coniò il nome scientifico della verza fu il solito svedese Carlo Linneo, correva l'anno 1753, il quale pensò bene di latinizzare il nome che aveva, e ha, tanto nella sua lingua (Savoykål) che in inglese (Savoy cabbage), insomma 'il cavolo di Savoia'. Il nome Savoia, per altri motivi, sui quali qui non ci soffermiamo, ebbe poi un certo peso nella storia italiana. E furono cavoli nostri, che mai peraltro ci saremmo sognati di dare a un cavolo il nome di una casa regnante o a una casa regnante il nome di un cavolo (vilipendio del cavolo?).

 "Verza" sarebbe nome di origine lombarda, derivante dal latino viridis "verde" (ipotesi avvalorata dal nome francese dell'ortaggio: chou de Milan 'cavolo di Milano').

Verzis e jerbis

La prima attestazione in Friuli è del 1435, quando troviamo Verzis e ierbis nelle carte della confraternita dei Battuti di Udine (Ierbis aveva il valore di 'ortaggi').
Le testimonianze continuano nel secolo successivo, quando la verza si trova, anche in componimenti poetici, abbinata alla robe purcine ed emerge una nomenclatura a essa infeudata, per esempio cjantùi costa di verza, çuncùi gambo di verza, cimòt verza non maturata.

Nel Seicento, e siamo sempre in poesia, la verza compare nei versi del conte Ermes di Colloredo, il quale la gratifica anche di traslati un po' birichini e, quando la abbina a un salsicciotto, lo fa con intenti tutt'altro che gastronomici.

Nell'Ottocento compaiono lis verzis garbis, una specie di craut (in friulano è maschile singolare) che, nella denominazione, ricorda i triestini capuzi garbi.

E compare il brût di verzis nei versi del poeta Pietro Zorutti il quale si dice nemico (nemì capitâl) di questa pietanza.

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La verza si ritrova nel folclore (in alcuni paesi si dicono chei da verza i giovani che saranno coscritti l'anno successivo, cioè i diciannovenni) e nei detti popolari (amôr nol è brût di verzis, in triestino amor no xe brodo de fasioi).  

L'alterato verzòt può definire una persona non molto sveglia così come una parte del corpo, soprattutto femminile, sulla quale sogliono indugiare gli sguardi maschili e sulla quale si attarda la fantasia di un poeta, che preferiamo lasciare anonimo, mercé la scusa del venticello dispettoso:
Al è tant cence creanze / Chel vintàz ch'al marcje sot / Lis fantatis, cun baldanze, / Par glazzâur il verzòt...

E il verzotìn? Solitamente non ha significati metaforici e, poi, non è neppure una verza bensì un cavolo cappuccio.

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Resistente al freddo 

Il successo storico della verza risiede nella sua grande resistenza al freddo. Ciò ne faceva l'unico alimento fresco disponibile durante l'inverno. Le rape, appartenenti alla stessa
famiglia delle Brassicacee, non avevano grande durata (se non conservate sotto forma di brovada) e, nel corso dell'Ottocento, furono soppiantate dalle patate.
La verza, resa più amabile al gusto dalle basse temperature, ha ancora un posticino sul nostro desco invernale e mantiene qualche cantuccio, invero sempre più incerto, nell'orto
familiare.

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