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Ristorazione non autoctona fuori dai centri storici

riportiamo per i lettori il testo di Carlo Petrini sull'argomento

"Se la tendenza è quella di estromettere ogni forma di ristorazione non autoctona dai centri storici allora, chissà, presto dovremo dire addio anche a questi “esotismi” da tempo entrati nelle nostre abitudini.

Voglio vedere come reagiranno le modelle che affollano Milano nelle settimane della moda quando saranno costrette a mangiare la “cassoeula” perché saranno stati banditi i sushi bar dal centro, oppure i milioni di giovani italiani che dovranno rinunciare a farsi una birra nei tanti pub inglesi e irlandesi improvvisamente cancellati.

Se la tendenza è quella di estromettere ogni forma di ristorazione non autoctona dai centri storici allora, chissà, presto dovremo dire addio anche a questi “esotismi” da tempo entrati nelle nostre abitudini. Magari si finirà con il vietare i rum per i cocktails all’ora dell’aperitivo come si vieta il kebab, o s’impedirà a un italianissimo bar di servire gli hot dog. Si scherza, ma serve a riflettere

su come ogni generalizzazione immediatamente porge il fianco al paradossale se non all’assurdo.

Capisco che ci sia bisogno di decoro nei salotti buoni delle città e che la proliferazione di fast food et similia rischi di essere troppo invadente. Capisco anche che in qualche modo vada preservata l’identità locale e nazionale, soprattutto per “venderla” bene ai turisti. Ma l’identità emerge, si mantiene viva soltanto nello scambio e grazie al confronto. Mi si dirà: «Proprio tu che negli anni ’80 sei sceso in piazza per non far aprire un fast food in Piazza di Spagna a Roma». Ma lì non ci si opponeva allo “straniero”: lì ci si opponeva all’omologazione che cancellava la diversità, all’abbassamento generalizzato della qualità alimentare.

Il cibo locale e tradizionale diventava una forma di resistenza contro l’appiattimento dei nostri costumi alimentari. Una forma di opposizione che vale ancora oggi. Sempre con buon senso però. Questa battaglia, infatti, non preclude nulla ai kebab, agli hamburger o ai ristoranti etnici. Il problema resta la qualità, che non può prescindere dalle materie prime, mediamente migliori per gusto e proprietà nutritive se fresche e di provenienza locale.

Allora perché escludere l’hamburgheria che usa carne autoctona, insalate fresche, patate non surgelate? Perché non esaltare chi sa fare un kebab come si deve senza procurarsi la carne da distributori globali, non troppo dissimili da quelli che la forniscono alle catene di fast food più note? Perché non valorizzare chi importa cucine esotiche con sapienza, utilizzando materie prime nostrane? Cominciano a esserci molti esempi virtuosi da questo punto di vista nelle nostre città: giovano alla crescita collettiva della ristorazione, della cultura alimentare, contro l’omologazione e la bassa qualità. Se proprio vogliamo essere cattivi e mettere al bando chi rovina i nostri centri storici, allora rivolgiamoci anche ai bar dove si servono solo piatti e panini surgelati (rigorosamente prodotti da industrie italiane però!); alle “pizzerie al taglio” improponibili per la proto-pizza che propinano; ai tanti ristoranti acchiappa-turisti (con i fastidiosi “buttadentro” alla porta) che, a fronte di un’apparenza molto italiana (spesso italiota), non fanno altro che distribuire una cucina che definire dozzinale è un complimento, a base di prodotti di dubbia qualità e provenienza, talvolta immangiabile e per di più a prezzi da rapina.

La cosa più importante resta una: che si parli di una grande catena di ristorazione internazionale, di un “kebabbaro” o di un pizzaiolo, se questi si limitano a fare ordinazioni da distributori che smerciano sempre la stessa cosa in tutta Italia, e magari anche in Europa, non stiamo parlando di vera economia locale. In questi giorni esce la nuova edizione della Guida alle Osterie d’Italia di Slow Food Editore, che da più di vent’anni censisce i luoghi del buon mangiare tradizionale. Ciò che emerge è che l’osteria è sempre di più un motore di economia locale, per il rapporto che instaura con i produttori, per come li valorizza e per come riconosce loro i giusti prezzi per il lavoro che fanno. E allora ecco un altro buon motivo per bandire un certo tipo di ristorazione: evitiamo chi non riconosce remunerazioni degne ai produttori, chi alimenta un sistema agroindustriale che li sta stritolando, pagando prezzi ridicoli. È questo il vero nocciolo della questione, e va di pari passo con il sano vecchio buon senso: per sostenere l’agricoltura locale e le piccole economie di territorio non è strettamente necessario che il vestito sia sempre quello della tradizione, ma in qualche modo bisognerà pur farlo.

Di Carlo Petrini
Tratto da La Repubblica 20/10/11

 

 

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