Canoce: di tutto di più

“A Santa Caterina (25 novembre) xè meio una canocia che una galina”: questo proverbio, non privo di significati consolatori, non va preso alla lettera. Esso fissa, con saggezza popolare, la fine del periodo di tre o quattro mesi in cui la prelibata canocia, si è abbondantemente alimentata dopo la riproduzione estiva e non ha ancora cominciato a dedicare energie alla maturazione sessuale e a riempire le ghiandole del cemento, presentandosi così “piena” e carnosa.

Il detto te son svodo come una canocia, utilizzato per indicare una persona magra oppure priva di slanci e di acume, testimonia infatti la delusione che si può provare avendo faticosamente pulito un esemplare che ha appena riprodotto, oppure, è stato conservato male. Infatti, durante la conservazione, le carni della canocia vanno incontro ad un velocissimo processo di disidratazione, a una precipitazione e addensamento dei soluti ed ad altri processi ossidativi per cui gli animali morti perdono di peso; le carni che nelle canoce vive sono turgide e trasparenti, si opacizzano diventando sempre di più flaccide e di colore biancastro.

Per evitare inconvenienti di questo tipo è opportuno che le canoce siano acquistate vive oppure ... morte da poco. E’ istruttiva a questo proposito la barzelletta che riguarda il solito “istriano”. Andato in pescheria, chiede: “perché quele canoce xe a dieci euro al chilo e quele altre xe a cinque”. Il pescivendolo risponde: “ma perchè quele de dieci xe vive e le altre xe morte”. L’istriano: “Ben! La me copi un chilo dele prime!” (copar = ammazzare).

La canocia ha il corpo appiattito e allungato, a forma di rettangolo lievemente rastremato verso avanti, di colore bianco-crema, con sfumature violacee, simili alla madreperla. Può esser lunga fino a 20 cm circa e pesare in media 50 g i maschi e 45 g le femmine (le femmine rimangono un po’ più piccole dei maschi perché durante il periodo di incubazione delle uova non si nutrono o si nutrono poco).

Il capo presenta due paia di antenne a tre flagelli. Il nome specifico (mantis) le deriva dalle due chele raptatorie, simili a quelle della mantide religiosa, ma usate in modo opposto, cioè slanciando l’arto in avanti e in alto, come l’uppercut di un pugile.

Le macchie oculiformi color porpora e orlate di bianco sul telson (ultimo segmento del corpo, una specie di coda dentata e lateralmente dotata di due appendici terminanti a paletta, dette uropodi), sono probabilmente un adattamento difensivo e sembra servano a confondere eventuali predatori. Prive infatti di funzionalità visiva, hanno stimolato l’immaginario popolare, riassunto nel detto veneziano: ti xe orbo come ‘na canocia!.

Squilla mantis predilige i fondi fangoso sabbiosi tra 10 e 50 m di profondità e diventa meno frequente andando verso i fanghi e verso le sabbie. Questo fatto è verosimilmente legato alla possibilità di scavare le sue tane, conformate ad U molto aperte, con le imboccature poste fino a 80-100 cm di distanza l’una dall’altra.

Da queste tane la canocia tende agguati alla preda e in esse le femmine si rifugiano per custodire le uova fecondate dopo che queste sono state avvolte in una massa dalla grandezza di una noce da una sostanza mucillaginosa prodotta dalle ghiandole del cemento. Dopo la fecondazione, alla schiusa delle uova, si libera una larva che cambia ripetutamente forma e conduce vita planctonica fino ai mesi tardo estivi quando, assunta la veste adulta, si insedia sul fondo. Scavata la tana, si accresce per mute successive, liberandosi dell’esoscheletro, cioè “andando in moleca”, aumentando rapidamente di proporzioni e costruendosi poi un altro “vestito” adatto alla nuova taglia. La canocia, accanito predatore, è predata a sua volta da grossi pesci e squamiformi bentonici (cani).

La pesca avviene con reti a strascico lungo tutta la fascia fangosa costiera dell’Adriatico e diventa via via più produttiva da marzo-aprile in poi. A novembre e dicembre, nonostante un rallentamento della sua attività, la specie dà adito ad abbondanti pescate soprattutto dopo le mareggiate di scirocco che determinano il danneggiamento o il crollo delle tane.

Nel Golfo di Trieste la pesca avviene soprattutto con piccole nasse innescate con la sardina (o altri scarti della pesca). Da una decina d’anni questo sistema di pesca, che fornisce un prodotto di qualità superiore a quello di altra provenienza, si è diffuso anche a Marano, Grado e Monfalcone.

La produzione del Friuli Venezia Giulia è di circa 200 t/anno, 45 delle quali provenienti dalla pesca con le nasse. Nei mercati ittici di prima vendita, i prezzi hanno ampie oscillazioni ed in questo periodo possono variare, di giorno in giorno, di due od anche tre volte il loro prezzo minimo.

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