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#parolegolose. Una rubrica nata durante la quarantina (quarantena) Covid-19, ma covata a lungo, in attesa di esprimersi ed esplodere. PAROLE GOLOSE. PER SAPERNE QUANTOBASTA. Una rubrica che racconta di parole. E che nasce dal successo dell'altra nostra sezione Chiedilo a qb. Domande e curiosità che attirano e coinvolgono i nostri lettori.  Saranno parole e frasi che racconteranno l'etimologia ma anche e soprattutto le origini di piatti, le trasmigrazioni di ingredienti e di vitigni, storie di modi di dire, di consuetudini alimentari. Senza troppe pretese, con la nostra consueta leggerezza. Per saperne quanto basta, appunto. #parolegolose

Dal 2021  la rubrica si arricchisce con le #ricettedaleggere. Ricette di scrittori, preparazioni tratte da libri che parlano di scrittori. Uno spunto per incuriosirvi e invitarvi a scoprire nuovi punti di vista. 

Entrambe le rubriche #parolegolose e #ricettedaleggere sono aperte alle collaborazioni dei nostri lettori.

Segnalateci una parola golosa, indicateci un racconto culinario. L'indirizzo è Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

 

Olive ascolane: le conosci veramente?

olive all ascolana courtesy of Alimentipediaolive all ascolana courtesy of Alimentipedia

Almeno il 90% delle olive all'ascolana che si gustano nei bar, nei ristoranti, sulle mense apparecchiate dai vari catering non hanno mai veduto Ascoli, né il Piceno. Sono olive fritte ripiene. Gustose fin che si vuole, ma solo e soltanto generiche olive fritte ripiene. Sono copie dell'originale. L'«oliva tenera ascolana» è tutta un'altra cosa. È perentorio l'amico Moreno Pecchioli che dedica a questa squisitezza un lungo articolo su la Verità (nostra fonte per questo pezzullo). 

 Gli studiosi di gastronomia fanno risalire la loro origine alla cucina delle famiglie borghesi dell'800: un modo per riutilizzare la carne (come ripieno) in un'oliva come sapido contenitore. Un'idea che divenne tradizione.

"Ancora adesso, garantiscono nella città delle cento torri, ogni donna capace di preparare la specialità del territorio, nasconde quel segreto nella pancia dell'oliva".

Un Consorzio tutela l'oliva ascolana del Piceno, cultivar già conosciuta in epoca romana. "Grazie alla Dop nessuna azienda italiana o estera può produrre e vendere olive non picene definendole «ascolane». Rischia l'accusa di truffa alimentare e il sequestro del corpo del reato da parte del Nucleo repressione frodi e dal Corpo forestale che già in passato si è distinto nel debellare maxi truffe alimentari. Il disciplinare di produzione dell'oliva ascolana del Piceno, nel paragrafo relativo alle notizie storiche, dice che i latini conoscevano le olive provenienti dai territori originari di Ascoli e di Teramo come ulivae picenae".

"Catone sottolinea la loro bontà nel De Rustica e consiglia il modo migliore per conservarle: 'Prima che diventino nere (Antequam nigrae fiant...) si pestino e si mettano a bagno nell'acqua. L'acqua va cambiata spesso. Poi, quando saranno macerate bastantemente (Deinde, ubi satis maceratae erunt), si scolino, si premano e si mettano in aceto, aggiungendo olio e sale. Si conservino in aceto, finocchio e lentisco. Quando se ne desidera si prendano con le mani pulite».

Furono i monaci benedettini a salvare la coltivazione varietale picena e anche i segreti della concia in salamoia.  

Il segreto dell'impasto per la farcitura? "Come ingredienti si usano: manzo, maiale, pollo, carota, sedano, cipolla, vino bianco e altre varianti. Quali? Dipende dal gusto e dalla tradizione famigliare. C'è chi mette il salame, chi la mortadella, chi aggiunge un cucchiaino di pomodoro. 

 

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Camembert de Normandie

Vacche normanneVacche normanne

Camembert de Normandie. Non solo con le mie righe di #parolegolose varco i confini della regione dove abito, ma mi spingo addirittura in un’altra nazione. Il camembert de Normandie è uno dei formaggi più famosi della Francia e del mondo. Benché protetto da una Dop, è ampiamente imitato. La sua qualità è legata al latte delle vacche normanne, nutrite con le erbe dei prati perenni della Normandia, o con il fieno durante l’inverno. Un latte ricco in grassi e proteine e perfetto per la caseificazione.

La gestualità sapiente del moulage (messa in forma) à la louche (con un mestolo) conferisce leggerezza alla pasta. Questo passaggio è fondamentale per dare al camembert le sue caratteristiche distintive:
la cagliata non viene frantumata, ma se ne preleva una parte con il mestolo (il cui diametro corrisponde a quello della forma: 10,5-11 cm) e la si depone nella forma dove inizia lo sgrondo del siero.
Lo stesso gesto si ripete come minimo cinque volte, ogni 40 minuti, deponendo ogni volta un poco di cagliata sullo strato sottostante.
Segue la salagione a secco e l’affinamento minimo di 22 giorni.
Il microclima dei dipartimenti del Calvados, dell'Eure, della Manche, dell'Orne e della Seine-Maritime, oltre alle caratteristiche straordinarie del latte lavorato a crudo fanno il resto.

 camembert

 

Quindi, perché creare un Presidio?

 

Sono passati più di due secoli da quando Marie Harel, secondo la leggenda, ospitò nella sua fattoria un prete ribelle in fuga dal Terrore della Rivoluzione parigina. Fu lui a trasmetterle la ricetta di questo formaggio di latte vaccino a pasta molle e crosta fiorita. Nel 1880 il camembert fu il primo formaggio a essere commercializzato in una scatoletta: la celebre confezione tonda in legno.
Ma nel secondo dopoguerra il sistema produttivo agricolo si industrializza, le latterie normanne diventano sempre più grandi e la grande distribuzione innesca la corsa al ribasso dei prezzi. Così la Normandia perde più del 90% dei piccoli produttori, i fermiers, a vantaggio di pochi grandi stabilimenti. Poco alla volta, la maggior parte dei nomi che hanno fatto la storia del camembert cede il proprio marchio storico a una multinazionale, che oggi produce buona parte del camembert sul mercato.

patrick mercierpatrick mercier
La legislazione attuale non aiuta. Il consorzio della Dop Camembert de Normandie, che prevede il latte crudo, il moulage à la louche manuale e sei mesi minimo di pascolo sui prati normanni, ha recentemente deciso di modificare il regolamento per consentire la pastorizzazione. In cambio sarà tolto dal mercato il marchio commerciale Camembert fabriqué en Normandie applicato su formaggi pastorizzati di tipo industriale che confonde totalmente le idee ai consumatori.

Ma entrambi i marchi consentono gli insilati, mais e soia ogm, la raccolta del latte da più allevamenti, la caseificazione meccanizzata, i fermenti selezionati, il cloruro di calcio. Il risultato è la presenza sul mercato di un camembert sempre più anonimo e una perdita di saperi artigianali e di biodiversità casearia.

In questo contesto, il camembert a latte crudo da produttori fermiers con il latte delle proprie vacche in larga misura di razza normanna e allevate sui pascoli ricchissimi della Normandia, correva un autentico rischio di estinzione. I primi due fermiers che hanno risposto all’appello del Presidio sono stati Patrick Mercier e Janine Lelouvier, che oltre alla AOP, hanno il marchio bio e la denominazione “latte da fieno”.
Il Presidio ha l’obiettivo di aiutare i produttori fermier a migliorare la tipicità del formaggio, usando i fermenti indigeni prodotti in azienda e non quelli industriali usati ormai da moltissimi piccoli produttori francesi, ma vuole anche promuovere l’agricoltura biologica, la razza bovina locale normanna, valorizzare il pascolo e l’uso di fieno autoprodotto.
Sul lungo periodo, il Presidio vuole diventare un esempio virtuoso per nuovi piccoli produttori fermiers che ambiscano a produrre camembert rispettoso della storia, del territorio e dell’allevamento normanno.

 

 

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Ines Di Lelio racconta di nonno Alfredo inventore delle celebri fettuccine

il vero alfredoil vero alfredo

Oggi nella nostra rubrica #parolegolose non raccontiamo il significato di singoli vocaoli o l'origine di alcune ricette. Oggi per voi abbiamo una storia, tutta leggere. Condividiamo con grande piacere la storia che ci  ha scritto in una email Ines Di Lelio, la nipote di nonno Alfredo, dopo aver letto qui on line la storia delle loro celebri fettuccine famose in tutto il mondo. 

STORIA DI ALFREDO DI LELIO, CREATORE DELLE “FETTUCCINE ALL’ALFREDO” (“FETTUCCINE ALFREDO”), E DELLA SUA TRADIZIONE FAMILIARE AL RISTORANTE “IL VERO ALFREDO” (“ALFREDO DI ROMA”) IN PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE A ROMA

Con riferimento al Vostro articolo ho il piacere di raccontarVi la storia di mio nonno Alfredo Di Lelio, inventore delle note "fettuccine all'Alfredo" (“Fettuccine Alfredo”).
Alfredo Di Lelio, nato nel settembre del 1883 a Roma in Vicolo di Santa Maria in Trastevere, cominciò a lavorare fin da ragazzo nella piccola trattoria aperta da sua madre Angelina in Piazza Rosa, un piccolo slargo (scomparso intorno al 1910) che esisteva prima della costruzione della Galleria Colonna (ora Galleria Sordi).

Il 1908 fu un anno indimenticabile per Alfredo Di Lelio: nacque, infatti, suo figlio Armando e videro contemporaneamente la luce nella trattoria di Piazza Rosa le sue “fettuccine”, divenute poi famose in tutto il mondo. Questa trattoria è the birthplace of fettuccine all’Alfredo.

vero alfredo fettuccinevero alfredo fettuccine

Alfredo Di Lelio inventò le sue “fettuccine” per dare un ricostituente naturale, a base di burro e parmigiano, a sua moglie (e mia nonna) Ines, prostrata in seguito al parto del suo primogenito (mio padre Armando).

Il piatto delle “fettuccine” fu un successo familiare prima ancora di diventare il piatto che rese noto e popolare Alfredo Di Lelio, personaggio con “i baffi all’Umberto” e qualche callo alle mani a forza di mischiare le sue “fettuccine” davanti ai clienti sempre più numerosi.


Nel 1914, a seguito della chiusura di detta trattoria per la scomparsa di Piazza Rosa dovuta alla costruzione della Galleria Colonna (oggi Galleria Sordi), Alfredo Di Lelio decise di aprire a Roma  il suo ristorante “Alfredo” che gestì fino al 1943, per poi cedere l’attività a terzi. estranei alla sua famiglia.
Ma l’assenza dalla scena gastronomica di Alfredo Di Lelio fu transitoria. Infatti nel 1948 riprese il controllo della sua tradizione familiare e aprì, insieme al figlio Armando, il ristorante “Il Vero Alfredo” (noto all’estero anche come “Alfredo di Roma”) in Piazza Augusto Imperatore n.30. 

Con l’avvio del nuovo ristorante Alfredo Di Lelio ottenne un forte successo di pubblico e di clienti negli anni della “dolce vita”. Successo, che, tuttora, richiama nel ristorante un flusso continuo di turisti da ogni parte del mondo per assaggiare le famose “fettuccine all’Alfredo” al doppio burro da me servite, con l’impegno di continuare nel tempo la tradizione familiare dei miei cari maestri, nonno Alfredo, mio padre Armando e mio fratello Alfredo.

In particolare le fettuccine sono servite ai clienti con 2 “posate d’oro”: una forchetta e un cucchiaio d’oro regalati nel 1927 ad Alfredo dai due noti attori americani M. Pickford e D. Fairbanks (in segno di gratitudine per l’ospitalità).


Mio nonno. Alfredo fu un grande amico di Ettore Petrolini, che conobbe nei primi anni del 1900 in un incontro tra ragazzi del quartiere Trastevere (tra cui mio nonno) e ragazzi del Quartiere Monti (tra cui Petrolini). Fu proprio Petrolini che un giorno, già attore famoso,  andando a trovare l’amico Alfredo, dopo averlo abbracciato, gli disse "Alfré adesso famme vede che sai fa".

Alfredo dopo essersi esibito nel suo tipico  "show" che lo vedeva mischiare le fettuccine fumanti con le sue posate d'oro davanti ai clienti, si avvicinò al suo amico Ettore che commentò "meno male che non hai fatto l'attore perché posto per tutti e due nun c'era" e consigliò ad Alfredo di tappezzare le pareti del ristorante con le sue foto insieme ai clienti più famosi.

Anche questi episodi fanno parte del cuore della bella tradizione di famiglia che continuo a rendere sempre viva con affetto ed entusiasmo.
Desidero precisare che altri ristoranti “Alfredo” a Roma non appartengonoal mio brand di famiglia.

Il Ristorante “Il Vero Alfredo” è presente nell’Albo dei “Negozi Storici di Eccellenza” del Comune di Roma Capitale.

Aperto tutti i giorni dalle 12:30 alle 15:30 e dalle 19:30 alle 23:30. Chiuso il lunedì a pranzo.

Grata per la Vostra attenzione e ospitalità nel Vostro interessante blog, cordiali saluti
Ines Di Lelio

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Va di moda (da secoli) il pranzo al sacco

 

charles cottet 1903 donne pranzano al sacco durante il pardon di sainte anne la paludcharles cottet 1903 donne pranzano al sacco durante il pardon di sainte anne la palud

#parolegolose. Il pranzo al sacco come lo definiamo? È un modo di preparare i pasti che prevede la predisposizione anticipata di cibi e alimenti (preparazione casalinga o acquistati)  da mangiare in spazi diversi da quelli domestici, come il posto di lavoro, in una mensa o in un refettorio, all'aperto, eventualmente in luoghi appositamente adibiti, e in situazioni diverse, come una pausa-lavoro, una ricreazione scolastica, un picnic, una gita, un'escursione, un safari, un viaggio, un campeggio. 

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Sarde a beccafico. Perché si chiamano così?

sardesarde

Da dove nasce il nome di questo piatto tipico della cucina siciliana?  Sardi a beccaficu deriva giustappunto dai beccafichi, volatili della famiglia dei Silvidi. In passato i nobili siciliani li consumavano, dopo averli cacciati, farciti delle loro stesse viscere e interiora. Il piatto era gustoso ma inavvicinabile al popolo in quanto bene di lusso. I popolani siciliani ripiegarono quindi sulle materie prime che potevano permettersi, come le sarde. Per imitare il ripieno d'interiora utilizzarono la mollica di pane, qualche pinolo e poco altro.

Ecco a voi la ricetta dello chef Marcello Valentino

 

Ingredienti per 4 persone

12 sarde fresche sfilettate

1 cucchiaio di uva passa

6 fette di pane raffermo grattugiato

1 cucchiaino di scorza grattugiata di arancia o limone

1 cucchiaio di prezzemolo tritato

2 cucchiai di pinoli tostati 

20 g di caciocavallo semi stagionato

olio extravergine di oliva (varietà Nocellara)

½ bicchiere di vino bianco

50 ml di brodo di pesce filtrato

pepe nero da mulinello q. b.

sale affumicato q. b.

foglie di menta q. b.

succo di arancia o limone q. b.

 

Preparazione


In un robot da cucina, versare tutti gli ingredienti (tranne le sarde, il vino e la menta) e miscelare fino a ottenere un composto molto soffice e profumato.
Riempire le sarde sfilettate, e, prima di avvolgerle su se stesse, aggiungere qualche goccia di succo di agrume. Collocarle su una teglia antiaderente (o su carta forno) una accanto all’altra. Versare il mezzo bicchiere di vino e mettere in forno, a 180 °C.

Cuocerle, per i primi 10 minuti, con un coperchio (carta da forno oppure di alluminio) e successivamente, per altri 10 minuti, a teglia scoperta.

Qui sotto un'immagine di una ricetta sempre dello chef Valentino tratta dal blog di Luciano Pignataro: Sarde con cous cous

couscouscouscous



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Il vino nel piatto

vino nel piatto pag qb dicembre 2021 vino nel piatto pag qb dicembre 2021

Aggiungere del vino rosso al brodo caldo è un’antica tradizione padana. Qualcuno ha voluto trovare a questa abitudine nobili origini, legate ai raffinati consommé al Cognac o al Porto della cucina francese. Qui la proposta è con il T.E.R.S. Ancestrale di Venturini Baldini, da uve Lambrusco Montericco, varietà di collina. Un vino frizzante che rifermenta sui suoi lieviti indigeni. Ma certamente qualche lettore friulano e veneto ricorderà anche il Clinto…
“Il bere in vino non era limitato ai soli tortellini. A San Cesario sul Panaro, per esempio, c’era l’abitudine di annegare nel vino rosso perfino le tagliatelle al ragù. Dalle montagne è scesa anche a valle l’usanza di far macerare nel vino le caldarroste. Il brodo di vino caldo è usato persino per una gustosa zuppa di pane vecchio. Alcuni mescolano il vino anche col caffè e assicurano che quest’inconsueta bevanda ha straordinarie proprietà digestive. Provare per credere”. (Tratto da La cucina mirandolese di Giuseppe Morselli – Edizioni CDL).

Il bevr'in vin (dal dialetto mantovano = bere nel vino) è una minestra che costituisce aperitivo e antipasto. Secondo la tradizione infatti i pasti invernali devono essere preceduti dal bevr'in vin, servito in scodella preriscaldata, preparato in tre differenti modi.
1) Nel caso il primo piatto consista in agnolini o cappelletti, in brodo o asciutti, il bevr'in vin viene servito con un mestolo di brodo bollente, contenente alcuni agnoli o cappelletti. La temperatura verrà diminuita dal commensale aggiungendo a piacere vino rosso di forte corpo. Tale operazione viene anche definita negàr i caplét in d'l'acqua scura, cioè «annegare i cappelletti nell'acqua scura». Nei ristoranti, per favorire la
comprensibilità ai non mantovani, questa versione del bevr'in vin viene spesso denominata sorbir d'agnoli.
2) Nel caso il primo piatto sia costituito da tortelli di zucca, il bevr'in vin viene composto con cinque o sei tortelli appena cotti, ai quali vengono aggiunti un goccio d'acqua di cottura e mezzo bicchiere di vino. Questa versione è anche definita turtèi sguasaròcc, ovvero «tortelli sguazzanti»
3) Per tutti gli altri primi piatti, il bevr'in vin è semplicemente preparato con brodo di carne e mezzo bicchiere di vino. 

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Carnevale Venezia Casanova

Longhi La venditrice di fritoleLonghi La venditrice di fritole

“Alzarsi alle quattro del mattino, andare in barca per tuffarsi in alto mare e ripassare per piazza S. Marco, prendere una cioccolata in vestaglia, andare e venire, pranzare bene, dormire due o tre ore, rimettersi in moto verso le sette correndo per acqua e per terra, fare visite fino a mezzanotte. Inghiottire in tutte queste ore tante limonate, caffè, cioccolate, gelati, senza cenare altro: ecco la vita di Venezia” scriveva Grosley, attento osservatore dei costumi italiani dell’epoca.

Ogni anno il Carnevale mi porta, almeno con l’immaginazione, a Venezia. E Venezia per me è sinonimo di Giacomo Casanova, uomo colto, raffinato e di grandi appetiti (in tutti i sensi). Figlio di un’attrice goldoniana e discendente di una stirpe di hidalgos, cresciuto da una nonna veneziana, studiò a Padova per avviarsi alla carriera religiosa. In seguito vestì la divisa di ufficiale di marina - destinazioneCorfù - per poi tornare a Venezia nel 1746. 
A quell’epoca - Casanova ha 21 anni - il Carnevale a Venezia regna sovrano per sei mesi l’anno; dalla prima domenica di ottobre a Natale, dall’Epifania all’inizio della Quaresima per estendersi alle due settimane dell’Ascensione. Ci si maschera anche il giorno di San Marco, a ogni elezione del Doge e a ogni nomina del Procuratore. Tutti, dal principe alla servetta, in quei giorni sbrigano le faccende mascherati e se ne vanno poi in giro allegramente per buona parte della notte.
Casanova, libertino per vocazione, non si sottrae a questo tipo di vita fatto di lusso e di facili passioni. Usa il suo amore per la tavola come elemento di seduzione e ritiene che il piacere del cibo preluda al piacere dell’alcova. Nelle sue opere e nelle sue memorie l’amore per la bella tavola, il bere e il cibo è ben documentato. Al primo incontro con la monaca M.M - la donna che forse egli amò di più fra tutte - rimase colpito dall’eleganza del pasto. Porcellane di Sèvres e scaldavivande d’argento, otto portate “fini e delicatissime” create da un cuoco francese. Spumante e champagne “occhio di
pernice” (champagne di antica tradizione dal colore ambrato). Casanova ritiene che la scelta delle vivande per una cena galante debba tenere conto di chi si invita a tavola. 

ispirandoci a Casanova foto Masarotti Zanuttini ispirandoci a Casanova foto Masarotti Zanuttini Possiamo immaginare, allora, due tavolini affiancati, uno dei quali funge da piano di servizio; candelabri, piatti bianchi, portavivande d’argento, bottiglie e bicchieri di cristallo poggiati sul tavolo di servizio (all’epoca era considerato volgare tenerli sul tavolo da pranzo), tovaglie di lino e merletti neri. Tutto a tavola era gestito secondo le regole dell'etichetta e della cortesia.

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Cavour la buona tavola e i cavolfiori

cavolfiore alla cavour by primochef.it

Non solo l'elezione del nuovo presidente della Repubblica, ma soprattutto la stagione, mi hanno fatto venire in mente dei piatti dedicati nel loro a nome a un politico - precisamente presidente del Consiglio dei ministri dell'epoca - come Cavour. Camillo Benso conte di Cavour fu infatti, a dire dei contemporanei, un vero goloso e anche un gourmet, convinto che lo stare a tavola fosse una opportunità straordinaria per mediare in qualsiasi tipo di trattativa, anche politica. “Cattura più amici la mensa che la mente" era una delle sue frasi preferite. 

La sera del 26 aprile 1859, respinto l’ultimatum dell’Austria che intimava al Piemonte di smobilitare l’esercito ai confini e dopo aver proclamato quella che sarebbe stata la Seconda Guerra d’Indipendenza,  storia o leggenda vuole che Camillo abbia esclamato: “Alea iacta est (il dado è tratto, cioè la decisione è stata presa), adesso andiamo a mangiare”.

Che la buona tavola fosse per Cavour una grande passione fin da piccolo, leggiamo su pixelicious.it,  lo si legge in una lettera del padre del piccolo Camillo: “Nostro figlio è un ben curioso tipo. Anzitutto ha così onorato la mensa: grossa scodella di zuppa, due belle cotolette, un piatto di lesso, un beccaccino, riso, patate, fagiolini, uva e caffè. Non c’è stato modo di fargli mangiar altro!“.

Camillo fin da giovane amava soprattutto intingoli e sughi, al punto che oggi il suo nome designa diversi tipi di guarnizioni, codificate dalla cucina internazionale: scaloppine di vitello o animelle brasate, risotto mantecato con il tuorlo, gli agnolotti e la celebre finanziera. Se davvero Cavour gradiva tutte queste preparazioni e le richiedeva assiduamente tanto da associarne le ricette al nome, è legittimo sospettare che passasse molto tempo seduto al tavolo da pranzo, anche se va detto che a quel tempo era quasi una moda dedicare i piatti ai personaggi storici, in modo da regalare alle ricette nobiltà e tipicità.
Il Ristorante in cui Cavour era solito pranzare era il Ristorante del Cambio, inaugurato nel 1757 e ancor oggi gioiello storico della città: il locale non solo conserva ancora, nella sala più ampia, il tavolo dove abitualmente Cavour sedeva, ma propone nel suo menu molte delle ricette che il conte gustava. 

La ricetta del cavolfiore alla Cavour è semplice e relativamente facile. Si tratta di un piatto da cuocere al forno, composto da cime di cavolfiore condite da burro e formaggio, e accompagnate da una salsina di uova e acciughe (le indicazioni le ho prese dal sito primochef.it)

Ingredienti:
• 1 cavolfiore grande
• 3 uova sode
• 3 acciughe
• 90 g di burro
• 80 g di grana padano grattugiato
• 1 ciuffo di prezzemolo
• succo di 1 limone
• sale q. b. 

 

Preparazione 

Lavate il cavolfiore, eliminando le foglie esterne, il torsolo ed eventuali parti ammaccate. Lavate il prezzemolo e tritatelo finemente.
In abbondante acqua salata fate lessare il cavolfiore per circa 10 di minuti, deve risultare cotto e sodo. Tiratelo fuori dalla padella ed eliminate l’acqua in eccesso.
In una padella fate sciogliere a fiamma media 60 g di burro, e ripassateci le cimette di cavolfiore.
Imburrate una teglia da forno con gli altri 30 g di burro, adagiatevi le cime di cavolo e cospargete la superficie con il formaggio grattugiato. Infornate a 180 °C per 10-15 minuti circa.
Nel frattempo cucinate le uova sode, facendole bollire per 8 minuti, dopo il primo bollore.
Una volta pronte le uova, sgusciatele e tritatele dentro una ciotola. Aggiungete anche le acciughe, il prezzemolo e il limone spremuto.
In un pentolino fate sciogliere il burro rimasto e poi versatelo sulle uova tritate, mischiando e amalgamando tutti gli ingredienti tra loro.
Tirate fuori la teglia dal forno, e servite, irrorando ogni piatto di abbondante salsa.

Conservazione
Il cavolfiore alla Cavour può essere conservato in frigo (senza salsa) per 3 giorni, se chiuso in un contenitore ermetico. Altrimenti può essere congelato fino ad un mese. Per questioni di praticità, il consiglio di primochef.it è di congelarlo già porzionato.

 

Riproduzione riservata © 2022

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I tagli e le parole sono importanti in cucina

 sedano alla julienne courtesy ph Geoffsedano alla julienne courtesy ph GeoffVengono prevalentemente dalla Francia i termini tecnici per indicare correttamente e con precisione quasi millimetrica i tagli delle verdure. Sono dei procedimenti base che consentono di ottenere ottimi e corretti risultati. Non vanno considerati dei sofismi da perfezionisti un po' maniacali, ma suggerimenti corretti frutto di secoli di esperienza. Cliccando qui potete scoprire il mio articolo su tecniche e origine della mirepoix.

Nulla di nuovo in realtà, se consideriamo che la cucina giapponese di tagli ne ha codificati in gran numero e non solo per il pesce, ma proprio per le verdure, e che la cucina cinese e orientale in genere sottolineano l'importanza di tagliare gli ingredienti come pollo e manzo a pezzi piccoli di misura simile proprio per favorire una cottura uniforme. 

1) Il taglio à la julienne (detto anche alla filangé) consiste nel tagliare le verdure in filetti o "fiammiferi" di lunghezza variabile (4-5 cm) e molto sottili (sezione quadrata di circa 2 mm di lato). Si utilizza soprattutto per cipolle e carote, ma anche per zucchine, peperoni, sedano rapa.  Lo spessore  non deve superare i 2 millimetri: tagliate la verdura a metà, effettuate quindi dei tagli trasversali fino a ottenere dei piccoli bastoncini. L'espressione à la julienne è citata per la prima volta in Le Cuisinier Royal del 1802. Alcuni sostengono che uno chef di nome Julien avrebbe utilizzato per primo il metodo, ma ovviamente non ci sono prove in merito. 

brunoise  ph courtesy meilleurdechef.combrunoise ph courtesy meilleurdechef.com

2) La brunoise è un taglio che perfeziona la julienne, girata di un quarto di giro e tagliata a dadini, per ottenere cubetti di circa 3 millimetri (e anche meno, fino a 1 mm) su ciascun lato. Il termine si riferisce in genere al sedano, alla cipolla, all'aglio e alla carota per il soffritto. L'operazione richiede di fare pratica per ottenere cubetti dello stesso spessore; ovviamente vi serviranno anche un buon coltello e un buon tagliere. Le verdure tagliate in questa modalità vengono usate per il soffritto, come fondo di cottura o come guarnizione per i piatti.

RECAP:  se i cubetti hanno un lato di 1-2 millimetri il taglio prende il nome di brunoise; se il lato arriva fino a 8 millimetri è mirepoix.

Se i cubetti  hanno le dimensioni di 1 centimetro, ottenete una deliziosa macedonia di verdure da usare come contorno o come guarnizione.  

3) Della mirepoix abbiamo detto, compresa l'origine del nome  

concasse de tomates by chef simonconcasse de tomates by chef simon

4) Il concassé viene utilizzato quasi esclusivamente per i pomodori: il pomodoro va inciso a croce, sbollentato per qualche minuto, scolato, raffreddato in acqua e ghiaccio e infine sbucciato. Va quindi tagliato in 4 parti uguali, poi a strisce e infine a cubetti da 5 millimetri. Cubetti ideali per bruschette e  insalate ma anche cotto per sughi e salse. 

chiffonnade by meilleurdechef.comchiffonnade by meilleurdechef.com

5) Il taglio a chiffonade è adatto alle verdure a foglia larga come lattuga o spinaci. Trattasi di striscioline lunghe e molto sottili, per guarnire minestre o arricchire insalate. Il consiglio utile è di arrotolare arrotolare prima del taglio. 

 

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Animali da bassa corte: quali sono?

 ©Photo R.M.N.  R.G. Ojéda

Animali da bassa corte. Definizioni antiche di quando c’erano ancora le corti… Parole che insieme a rigaglie, fittavolo, mezzadro parlano di relazioni sociali ben diverse da oggi. Gli animali di bassa corte sono (erano) quelli che vivono nell’aia della casa colonica: in primis galli e galline, ma anche tacchini, papere, conigli, colombi.

Angelo Maria Crivelli Animaux de basse courAngelo Maria Crivelli Animaux de basse cour

Mel Medioevo, o meglio a partire dal Medioevo, oltre ai cavalli, preziosissimi per la vita di corte e quindi a essa riservati, spettava esclusivamente ai nobili la selvaggina stanziale di maggior pregio, lepri, fagiani, starne. Il dizionario Treccani ci ricorda che l’espressione è nata come calco del francese basse-cour, che indicava il cortile di servizio dei castelli in contrapposizione con la cour d’honneur, il cortile di rappresentanza.

Rigaglie è un vocabolo che per assonanza e non solo ci porta a regalìe, cioè a tutte le cose che spettavano al re. Successivamente le regalìe (polli, ecc.) per contratto erano destinate ai proprietari dei terreni, che, con gesto magnanimo, distribuivano le interiora (rigaglie) tra la servitù o le davano al mezzadro. Anche il fegato era una rigaglia e forse questo spiega l’abbondanza di paté di fegato di tutti i tipi di animali che si trovava nelle nostre campagne.

volaille de Bressevolaille de Bresse

Approfitto di questo spazio dedicato anche ai polli per celebrare il mitico Volaille de Bresse AOP (genere Gallus, di razza Gauloise o Bresse, varietà Blanche), distribuito in Italia da Longino con anello dell’allevatore e sigillo.

Piumaggio bianco, cresta rossa, zampe blu: la grandeur francese si rivela anche nei dettagli.

 

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Ah, le gioie domestiche!

laurie colwin cover

1 gennaio 2022. Per le nostre Parole golose abbiamo scelto poche righe tratte da The Lone Pilgrim di Laurie Colwin (1944-1992), autrice di romanzi, di tre raccolte di racconti, nonché di Home cooking, straordinaria raccolta di saggi a tema culinario. Appassionata cuoca autodidatta, scrisse anche per il New Yorker e per la rivista Gourmet.

Ah, Le gioie domestiche! La meraviglia dei piatti da portata e dei bricchetti per il latte. Impari a conoscere le tue amiche dai loro ninnoli. Li vuoi tutti. Se la signora A.  possiede il vecchio stampo di gelatina di sua mamma ne vuoi uno anche tu, insieme a tutto ciò che si porta dietro: la famiglia, la tradizione, gli anni e anni in cui ci si è modellata dentro la gelatina. Per quanto siano confortevoli le nostre case, noi sensualiste domestiche viviamo in un perenne stato di desiderio.

(traduzione da edizioni Sur) 

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