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Risotto patrio. Rècipe. Risotto alla milanese di Gadda

risotto allo zafferano e foglia dororisotto allo zafferano e foglia doro

#ricettedaleggere. Il risotto patrio. Récipe di Carlo Emilio Gadda. La foto in alto è del risotto allo zafferano con foglia d'oro commestibile di Gualtiero Marchesi.  La ricetta di Gadda fu pubblicata nel 159 sulla rivista “Il gatto selvatico”, mensile pubblicato tra il 1955 e il 1964 da ENI, società di idrocarburi ed energia. "Nel luglio 1955 esce il primo numero dell'house organ di Eni fortemente voluto da Enrico Mattei e affidato al direttore e poeta Attilio Bertolucci. Si tratta di una pubblicazione rivolta ai dipendenti, con oltre 12 mila lettori", si legge sul sito dell'archivio storico Eni.

gatto selvatico covergatto selvatico cover

"Stampata a colori e con molte fotografie, sullo stile di un settimanale come la Domenica del Corriere, la rivista non si limita a essere un mero strumento aziendale. Infatti nei suoi nove anni di vita si pone come un vero laboratorio culturale, al quale collaborano autori come Leonardo Sciascia, Goffredo Parise, Natalia Ginzburg, Alfonso Gatto, Carlo Cassola, Carlo Emilio Gadda e altri. Grazie ai loro articoli e alle rubriche di sport, cinema, moda, gastronomia, la rivista permette di ripercorrere il costume e gli stili di vita dell'Italia degli anni del boom economico. L'ultimo numero è del marzo 1965.

 risotto patrio

 Con questo post diamo inizio alla rubrica #ricette da leggere che accompagnerà ogni domenica i nostri lettori nella nella sezione #parolegolose. 

 

 

 L’approntamento di un buon risotto alla milanese domanda riso di qualità, come il tipo Vialone, dal chicco grosso e relativamente più tozzo del chicco tipo Carolina, che ha forma allungata, quasi di fuso. Un riso non interamente ‘sbramato’, cioè non interamente spogliato del pericarpo, incontra il favore degli intendenti piemontesi e lombardi, dei coltivatori diretti, per la loro privata cucina. Il chicco, a guardarlo bene, si palesa qua e là coperto dai residui sbrani d’una pellicola, il pericarpo, come da una lacera veste color noce o color cuoio, ma esilissima: cucinato a regola, dà luogo a risotti eccellenti, nutrienti, ricchi di quelle vitamine che rendono insigni i frumenti teneri, i semi, e le loro bucce velari. Il risotto alla paesana riesce da detti risi particolarmente squisito, ma anche il risotto alla milanese: un po’ più scuro, è vero, dopo e nonostante l’aurato battesimo dello zafferano.  

Recipiente classico per la cottura del risotto alla milanese è la casseruola rotonda, e la ovale pure, di rame stagnato, con manico di ferro: la vecchia e pesante casseruola di cui da un certo momento in poi non si sono più avute notizie: prezioso arredo della vecchia, della vasta cucina: faceva parte come numero essenziale del «rame» o dei «rami» di cucina, se un vecchio poeta, il Bassano, non ha trascurato di noverarla ne’ suoi poetici «interni», ove i lucidi rami più d’una volta figurano sull’ammattonato, a captare e a rimandare un raggio del sole che, digerito dagli umani il pranzo, concocto prandio, decede. Rapitoci il vecchio rame, non rimane che aver fede nel sostituto: l’alluminio. La casseruola, tenuta al fuoco pel manico e per una presa di feltro con la sinistra mano, riceva degli spicchi o dei minimi pezzi di cipolla tenera, e un quarto di ramaiolo di brodo, preferibilmente brodo al foco, e di manzo: e burro lodigiano di classe. Burro, quantum prodest, udito il numero de’ commensali.

Al primo soffriggere di codesto modico apporto butirroso-cipollino, per piccoli reiterati versamenti sarà buttato il riso: a poco a poco, fino a raggiungere un totale di due tre pugni a persona, secondo appetito prevedibile degli attavolati: né il poco brodo vorrà dare inizio per sé solo a un processo di bollitura del riso: il mestolo (di legno, ora) ci avrà che fare tuttavia: gira e rigira.

I chicchi dovranno pertanto rosolarsi e a momenti indurarsi contro il fondo stagnato, ardente, in codesta fase del rituale, mantenendo ognuno la propria «personalità»: non impastarsi e neppure aggrumarsi. Burro, quantum sufficit,  non più, ve ne prego; non deve far bagna, o intingolo sozzo: deve untare ogni chicco, non annegarlo. Il riso ha da indurarsi, ho detto, sul fondo stagnato. Poi a poco a poco si rigonfia, e cuoce, per l’aggiungervi a mano a mano del brodo, in che vorrete esser cauti, e solerti: aggiungete un po’ per volta del brodo, a
principiare da due mezze ramaiolate di quello attinto da una scodella «marginale», che avrete in pronto. In essa sarà stato disciolto lo zafferano in polvere, vivace, incomparabile stimolante del gastrico, venutoci dai pistilli disseccati e poi debitamente macinati del fiore. Per otto persone due cucchiaini da caffè. Il brodo zafferanato dovrà per tal modo aver attinto un color giallo mandarino: talché il risotto, a cottura perfetta, venti ventidue minuti, abbia a risultare giallo-arancio: per gli stomaci timorati basterà un po’ meno, due cucchiaini rasi, e non colmi: e ne verrà un giallo chiaro canarino.

Quel che più importa è adibire al rito un animo timorato degli dèi e reverente del reverendo Esculapio o per dir meglio Asclepio, e immettere nel sacro «risotto alla milanese» ingredienti di prima qualità: il suddetto Vialone con la suddetta veste lacera, il suddetto Lodi (Laus Pompeia), e i suddetti spicchi di cipolle tenere; per il brodo, un lesso di manzo con carote sedani, venuti tutti e tre dalla pianura padana, non un toro pensionato, di animo e di corna balcaniche: per lo zafferano consiglio Carlo Erba Milano in boccette sigillate: si tratterà di dieci dodici, al massimo quindici, lire a persona: mezza sigaretta! Non ingannare gli dèi, non obliare Asclepio, non tradire i familiari, né gli ospiti che Giove Xenio protegge, per contendere alla Carlo Erba il suo ragionevole guadambio (guadambio, romanesco popolare per guadagno o profitto). 

Per il burro, in mancanza di Lodi potranno sovvenire Melegnano Casalbuttano Soresina; Melzo, Casalpusterlengo; tutta la bassa milanese al disotto della zona delle risorgive, dal Ticino all’Adda e insino a Crema e Cremona. Alla margarina dico no! E al burro che ha il sapore delle saponette: no! Tra le aggiunte pensabili, anzi consigliate o richieste dagli iperintendenti e ipertecnici, figurano le midolle di osso (di bue) previamente accantonate e delicatamente serbate a tanto impiego in altra marginale scodella. Si sogliono de-porre sul riso dopo metà cottura all’incirca: una almeno per ogni commensale: e verranno rimestate e travolte dal mestolo (di legno, ancora), con cui si adempia all’ultimo ufficio risottiero. Le midolle conferiscono al risotto, non più che il misuratissimo burro, una sobria untuosità: e assecondano, pare, la funzione ematopoietica delle nostre proprie midolle. Due o più cucchiai di vin rosso e corposo (Piemonte) non discendono da prescrizione obbligativa, ma, chi gli piace, conferiranno alla vivanda quel  gusto aromatico che ne accelera e ne favorisce la digestione.

Il risotto alla milanese non deve essere scotto, ohibò, no! solo un po’ più che al dente sul piatto: il chicco intriso ed enfiato de’ suddetti succhi, ma chicco individuo, non appiccicato ai compagni, non ammollato in una melma, in una bagna che riuscirebbe spiacevole. Del parmigiano grattugiato è appena ammesso, dai buoni risottai; è una cordializzazione della sobrietà e dell’eleganza milanesi. Alle prime acquate di settembre, funghi freschi nella casseruola; o, dopo San Martino, scaglie asciutte di tartufo dallo speciale arnese affetta-trifole potranno decedere sul piatto, cioè sul risotto servito, a opera di premuroso tavolante, debitamente remunerato a cose fatte, a festa consunta. Né la soluzione funghi, né la soluzione tartufo arrivano a pervertire il profondo, il vitale, nobile significato del risotto alla milanese.

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