La verza d'inverno
La prima attestazione in Friuli è del 1435, quando troviamo Verzis e ierbis nelle carte della confraternita dei Battuti di Udine. Ierbis aveva il valore di 'ortaggi'. Le testimonianze continuano nel secolo successivo, quando la verza si trova, anche in componimenti poetici, abbinata alla robe purcine ed emerge una nomenclatura ad essa infeudata, ad es. cjantùi 'costa di verza', çuncùi 'gambo di verza, cimòt 'verza non maturata', ecc.
Nel Seicento, e siamo sempre in poesia, la verza compare nei versi del conte Ermes di Colloredo, il quale la gratifica anche di traslati un po' birichini e, quando la abbina a un salsicciotto, lo fa con intenti tutt'altro che gastronomici.
Nell'Ottocento compaiono lis verzis garbis, una specie di craut (in friulano è maschile singolare) che, nella denominazione, ricorda i triestini capuzi garbi. E compare il brût di verzis nei versi del poeta Pietro Zorutti il quale si dice nemî capitâl di questa pietanza.
La verza si ritrova nel folclore (in alcuni paesi si dicono chei da verza i giovani che saranno coscritti l'anno successivo, cioè i diciannovenni) e nei detti popolari (amôr nol è brût di verzis). L'alterato verzòt può definire una persona non molto sveglia così come una parte del corpo, soprattutto femminile, sulla quale sogliono indugiare gli sguardi maschili e sulla quale si attarda la fantasia di un poeta, che preferiamo lasciare anonimo, mercè la scusa del venticello dispettoso: Al è tant cence creanze / Chel vintàz ch'al marcje sot / Lis fantatis, cun baldanze, / Par glazzâur il verzòt...
E il verzotìn? Solitamente non ha significati metaforici e, poi, non è neppure una verza bensì un cavolo cappuccio.
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