Scritto da Eleonora Gaspari il . Pubblicato in Formaggi.

Agrì di Valtorta a latte crudo

Si sono svolte a Gemona del Friuli domenica 13 novembre 2016 le premiazioni della terza edizione del concorso “Raccontate il vostro formaggio del cuore” promosso dall’Ecomuseo del Gemonese in collaborazione con il comune di Gemona del Friuli, la Pro Glemona, la condotta Slow Food della Carnia “Gianni Cosetti” e il nostro mensile qbquantobasta.
La giuria del Premio era formata da: Federico Mariutti chef dell’Osteria Turlonia ristorante dell’Alleanza dei cuochi di Slow Food, Irene Piazza casara a Malga Cavallara, Adriano del Fabro giornalista, Max Plett presidente di Slow Food FVG, Sara Mardero presidente della Pro Glemona, Giovanni Venturini assessore all’agricoltura del Comune di Gemona del Friuli.Questo il racconto della vincitrice
Eleonora Gaspari.

Ricordate il film “Ritorno al Futuro 2”, dove Doc, Marty e Jennifer si ritrovano catapultati nel futuro, con la loro De-Lorean? Oggi, con questo mio racconto, vorrei farvi fare un tuffo nel passato, con una macchina del tempo un po’ particolare: l’Agrì. Cos’è l’Agrì? Un piccolo formaggio cilindrico, di latte vaccino intero a pasta cruda, la cui particolarità è data dalla tecnica di produzione, che non solo richiede tre giorni di lavorazione, ma anche una speciale manualità da parte del casaro. Si produce solo a Valtorta, in Lombardia. Un piccolissimo comune della Val Brembana, poco meno di 300 abitanti, a ridosso delle montagne, dove una stradina lastricata collega il municipio al duomo e alle scuole.

Arrivo a Valtorta in una uggiosa giornata autunnale: un’atmosfera surreale avvolge il paesino, non si sentono rumori di macchine o motorini ma solo l’acqua che scorre nel ruscello
e i saluti delle persone. Un brivido. Mi torna alla mente la cascina dove abitava mia nonna. Una cascina in mezzo al nulla nella bassa bergamasca, dove in estate l’unico suono era il canto dei grilli o delle ranocchie dentro il fosso, mentre d’inverno era lo scoppiettìo della legna che ardeva nella stufa a scandire le nostre serate. Anche il dialetto, seppur con parole diverse, mi
ricorda la nonna e i suoi discorsi, a volte per me incomprensibili, che faceva con le altre donne del paese. Mentre mi avvicino al piccolo caseificio la nostalgia si dissolve per lasciar posto a una piacevole sensazione di familiarità con quello che mi circonda. D’altronde anche la nonna amava i formaggi!

A Valtorta ancora oggi si produce l’Agrì secondo tradizione e rigorosamente a mano. Un tempo, quando i collegamenti con il fondovalle erano tutt’altro che agevoli, le donne impastavano in casa quella che veniva chiamata “pasta di agro” per poi portarla a piedi, dentro gerle e fagotti, attraverso i pascoli di Ceresola e i Piani di Bobbio, nella vicina Valsassina. Qui la pasta di
Agrì veniva venduta agli artigiani di Barzio e Introbio che la trasformavano nel prodotto finito.
Negli anni Cinquanta e Sessanta del ‘900 i contadini della zona, si riunirono in cooperativa e fondarono la latteria, tuttora in attività, con lo scopo di raccogliere il latte dei soci e trasformarlo in formaggio, burro e panna svolgendo anche una funzione sociale, tuttora oggi importantissima per i piccoli allevatori della valle, che senza la latteria sarebbero costretti a chiudere le loro attività. Fulcro economico di Valtorta, la latteria non a caso è posta sulla stradina principale: ancora oggi raccoglie il latte appena munto delle mucche che pascolano in valle e che i maestri casari trasformano nei tradizionali Formai de Mut, stracchino e Agrì.

L’Agrì –il nome significa “acido”– è un formaggino cilindrico del peso di 50 grammi Per produrlo con il latte crudo, che ha una temperatura compresa tra 35° e 37°C, vengono aggiunti del siero acido conservato dalla lavorazione del giorno precedente e del caglio, solitamente di abomaso di vitello. (L’abomaso è la parte di stomaco che serve per digerire il latte materno. I vitellini vengono macellati a 40 giorni dalla nascita per recuperarne gli enzimi). Una volta che la cagliata è pronta, si fa scolare il siero e si raccoglie la pasta mettendola in panni di lino. Viene quindi appesa e fatta scolare per due giorni. A questo punto la cagliata, dall’acidità ormai altissima, viene impastata con un poco di sale e manipolata fino a formare dei cilindri di 3 cm di diametro e di circa 5 cm di lunghezza che poi si lasciano asciugare. Si tratta di una produzione unica, ancora oggi fatta rigorosamente a mano. Ed è proprio qui che si vede l’abilità del casaro, soprattutto perché non si utilizzano bilance, ma è la mano che determina peso e forma del cilindretto.

Accedendo dal retro della latteria sociale, è possibile ammirare con quanta maestria e manualità vengono prodotti i cilindri di formaggio, tutti simili ma non uguali. In pochi minuti e con movimenti ben precisi, dalla semplice pasta nasce l’Agrì! Come i marinai rimanevano ammaliati dal canto delle sirene, io rimango ammaliata dai movimenti perfetti della mano del casaro. Eh sì, basta solo una mano per produrre questi piccoli gioielli e bastano pochi morsi per assaporarne la bontà. Colpita e affondata al cuore!

L’Agrì si consuma prevalentemente tra gli 8 e i 15 giorni dalla produzione. Il sapore è dolce e aromatico, dal profumo delicato. La pasta, che è bianca e morbida nel formaggio fresco, diviene più compatta in quello stagionato. La crosta, assente nel prodotto fresco, con la stagionatura si trasforma, assumendo un colore variabile dal
giallo al grigio. Questo formaggio era parte essenziale dell’alimentazione contadina e per questo motivo viene utilizzato in diversi modi, grattugiato, servito con altre pietanze, consumato in versione dolce con zucchero e cannella o in versione salata con olio e aceto balsamico.

Ecco la mia ricetta Gnoccone con l'agrì e foglie di cavolo nero