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Appuntamento con le erbe e con Ennio Furlan

Domenica 3 Aprile 2016 Appuntamento con Ennio Furlan, erbologo di riferimento di qbquantobasta, per conoscere raccolgiere e imparare a conservare le erbe. Dalle 10.00 presso Mont'Albano Agricola Via Casali Jacob, 2 Savorgnano del Torre (UD). Prenotazioni: tel.0432/647016. Con l'occasione segnaliamo che sul numero di aprile del mensile cartaceo qbquantobasta Adriano Del Fabbro intervista Mauro Braidot, titolare della Mont'Albano agricola, prima azienda di vini bio del Friuli VG
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Conoscete il brovadâr? Venite a scoprirlo il 13 dicembre a Moggio!

Brovadâr non è brovada. Sia chiaro!  E per chi non conosce la differenza urge leggere qbquantobasta o venire a Moggio Udinese! Il numero di novembre di qbquantobasta è andato a ruba! Non nel senso solito della gente che, fischiettando, cerca di rubarlo dagli espositori, ma con numerosi rifornimenti di copie richiesti dai punti vendita.Siamo certi che uno degli articoli che ha trascinato le vendite, oltre al super-inserto di 16 pagine sulle castagne e alla splendida ed esauriente disamina sui canestrelli dell'Adriatico, sia stato il lungo racconto sul brovadâr di Moggio Udinese a firma Enos Costantini e ai suoi informatori Anna Treu e Stefano Moroldo. Una storia di rape che ha saputo conquistare i lettori! E non sono le rape della brovada! Per saperne di più sulla storia, le fasi di preparazione, la tradizione di questo prodotto vi aspettiamo a Moggio Udinese il 13 dicembre alle 11 nella Sala Comunale.  Presenteremo qbquantobasta di dicembre, ci scambieremo gli auguri di Natale, ma soprattutto ascolteremo il professor Costantini in una delle fascinose narrazioni del suo (e nostro) amato Friuli.

Ma il brovadâr lo potremo anche assaggiare perchè il 13 dicembre la Pro Loco di Moggio organizza la festa dedicata a questo ortaggio, nell'ambito di Giro Presepi. Non mancate.

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Ricordate l'erba medica

Riproponiamo una parte dell'articolo di Enos Costantini pubblicato sul numero di agosto di qbquantobasta, relativo alla diffusione dell'erba medica in Friuli Venezia Giulia. "L'erba medica cominciò a diffondersi costì nella prima metà dell'Ottocento. Prese sempre più piede fino a fare da base alimentare alla pezzata rossa importata dalla Svizzera e a innescare quel ciclo virtuoso che portò alle latterie sociali. Quel ciclo virtuoso non era altro che il ciclo dell'azoto, fatto girare gratis dalla medica e applicato all'economia umana.

La medica, coltura resistente alla siccità, oltre che fissare l'azoto senza il dispendioso cracking industriale, durava anche otto anni, forniva un alimento abbondante, ricco di proteine, straricco di caroteni e non richiedeva concimazioni. In Friuli vi erano due ecotipi di medica, quello di Premariacco e quello della Bassa, segno di perfetta aderenza al territorio. I soldi delle sementi restavano qui e davano ricchezza a Premariacco, non a una lontana corporation con la faccia di un piazzista dell'agrobusiness.

Il sistema delle latterie era in equilibrio col territorio: si produceva latte in proporzione all'erba, non un litro di più. Un'idea che a quei soloni delle quote latte non è mai venuta. In questo sistema, a parte l'agricoltore, il consumatore, la sanità pubblica, il piacere del palato e la salute dell'ambiente non ci guadagnava nulla nessuno: non poteva durare".

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Diciotto specie di piante da frutto in vendita

Da mercoledì 6 marzo, fino a esaurimento l'azienda agraria universitaria Servadei di Udine mette in vendita piante da frutta. Diciotto le specie da frutto disponibili, a radice nuda o in vaso.  L’Azienda agraria ‘Antonio Servadei’ dell’Università

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Dieta mediterranea: strumento culturale

Cultura dell'olio d'oliva, leva di promozione sui mercati esteri. Se n'è discusso al convegno inaugurale di Olio Capitale
"Dieta Mediterranea: strumento culturale di penetrazione nei mercati europei" organizzato da Aries e Associazione Città dell'Olio. È la cultura l'unico veicolo per conquistare nuovi mercati internazionali: è attorno

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Erbe e dintorni

 

E' con vero piacere che vi invito alla presentazione del libro ERBE & DINTORNI di Ennio Furlan: lunedì 23 aprile alle 20,00 sarà presentato dal professor Sensidoni Ordinario di Scienze e Tecnologia dei prodotti agroalimentari all'Università di Udine e da me. Del resto Ennio è uno dei più apprezzati collaboratori del mensile qb quantobasta fvg. Un Maestro di altri tempi che con semplicità ci spiega come osservare, riconoscere, preparare

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Gorizia, una rosa nel piatto

rosa di goriziarosa di gorizia

Premo Nonino ai coltivatori del radicchio a forma di fiore (il premio giunto alla sua 37esima edizione sarà assegnato sabato 28 gennaio 2012 presso le omonime distillerie di Percoto, poco a sud di Udine). L'articolo è tratto da Lettera 43 e ci è stato inviato da Guido Mattioni (fra l'altro intervistato su qbquantobasta FVG in uscita a fine gennaio 2012).

In certi angoli benedetti d'Italia la puoi addirittura sentire. Ma soltanto se lo vuoi davvero. Succede infatti quando non usi l’udito ma unicamente il cuore. Allora sì che la terra si fa ascoltare. Ti parla e palpita, sospira e mormora, sussurra e a volte pare quasi scherzarci su, affidando al vento storie che risultano lievi anche se scritte dalla fatica; che sembrano semplici da raccontare come la gente che le popola e tuttavia scandite da ancestrali complessità che sfuggono alla frettolosa approssimazione di chi sopravvive nelle metropoli. Questa, di storia - straordinariamente bella - arriva da Est, dall’estremo lembo orientale del nostro Paese, là dove i solchi coltivati si incrociano e si accavallano con un confine troppo a lungo conteso e per molti anni anche insanguinato.
La Rosa di Gorizia. UNA STORIA TRA LE SPONDE DELL'ISONZO. Ci arriva, questa storia, spinta da refoli di vento bizzoso che la incanalano tra le sponde goriziane dell’azzurro Isonzo. Ma anche grazie al tam tam sensibile e colto che viene sempre puntualmente ritmato, di questi tempi, dalla giuria del Premio Nonino


Tra i quattro riconoscimenti che la famiglia di grappaioli friulani è solita assegnare ogni anno, il Premio Nonino Risit d’Aur (barbatella d’oro, in lingua friulana) è quello che appunto letteralmente affonda le sue radici nella storia stessa di questa kermesse culturale, nata nel 1975 per salvare - con un gesto di ribellione quasi anarchico - alcuni vitigni autoctoni friulani che erano stati condannati a morte da una classe di legislatori stupidi e incolti. «Basta, bisogna estirparli, non vanno più coltivati», era stata l’idiota sentenza. Decidendo invece provocatoriamente di premiare i contadini che - fregandosene di quella norma - avessero messo ugualmente a dimora quelle barbatelle, Gianola Nonino iniziò già da allora a dimostrare di quale spirito fosse fatta.
Vinse infatti quella battaglia - oggi il Pignolo, il Tazzelenghe e lo Schioppettino vivono e fortunatamente lottano (nei bicchieri) insieme a noi - e al tempo stesso tracciò il solco ampio e profondo che avrebbe portato anno dopo anno il Premio Nonino alla considerazione internazionale di cui gode oggi.


Otto famiglie hanno creato la Rosa di Gorizia. A vincere il Risit d’Aur, quest’anno, sono i Contadini (scritto in maiuscolo, ci mancherebbe) degli Orti di Gorizia. Non più di otto famiglie che coltivano piccoli appezzamenti di terra cosiddetti “a medio impasto” - ghiaiosi e soggetti alla siccità nel periodo estivo così come alle gelate in inverno - che si trovano alla periferia Nord della città giuliana.

Da un suolo almeno apparentemente avaro, che si tramanda i semi di generazione in generazione da 150 anni, questa sparuta pattuglia di adorabili e ammirevoli teste dure (indiscutibile pregio della terra friulana) riescono a far scaturire uno dei gioielli più belli, oltre che più buoni, della gastronomia di questo poco conosciuto angolo d’Italia: è la Rosa di Gorizia. Un radicchio, o meglio una particolare selezione locale di una cicoria cosiddetta “da grumolo”.

Il nome - Rosa - non è usurpato: una volta mondato, al termine di una lavorazione paziente ed estremamente laboriosa che ne porta inevitabilmente il costo verso l’alto rispetto alla più conosciuta e plebea concorrenza, ogni cespo di questo specialissimo radicchio assomiglia in tutto e per tutto, nell’aspetto esteriore, a un grosso bocciolo di rosa dal colore rosso intenso e da variegature diverse a seconda delle selezioni del seme fatte nel corso dei secoli dalle famiglie di agricoltori che lo coltivano.

«Radicchio o rosa?». A porsi ancor oggi la domanda è anche un giovane e talentuoso chef apprezzato ben oltre i confini nazionali, uno come Emanuele Scarello, che insieme a mamma Ivonne e papà Tino governa i fornelli e la sala della storica trattoria - esiste dal 1887 - Agli Amici di Godia, sobborgo di Udine. «Direi che questo è un dilemma di deliziosa rusticità. Posso dire che unisce la delicatezza del radicchietto da taglio e il temperamento vigoroso di uno di quelli con la radichetta. In una parola sola, però, lo definirei ‘spettacolare’. Premesso che per gustarlo al suo massimo bisogna lasciare anche a lui la sua radichetta, io suggerisco di assaggiarlo nel modo più semplice, alla friulana, tagliato in quattro quarti e condito con il sughino degli sfrisis di maiale (più o meno traducibile in ciccioli, ndr) appena tostati nell’aceto. Quello tira già fuori l’unto, l’olio non serve. Oppure si può servire ridotto a julienne, con appena un filo d’extravergine e del fior di sale, appoggiato su un filetto di branzino cotto al vapore. Un sogno».
Un fiore commestibile portato da un angelo in una notte di bora. Possono invece sognare un po’ di meno (perché i campi e i cicli di lavorazione non stanno ad aspettare i loro sogni) gli uomini e le donne che a questo specialissimo “fiore” commestibile si ostinano ancor oggi a dedicare la vita. Gente come Francesco e Anna Brumat, per esempio, non li puoi chiamare al telefono (ovviamente al fisso, che cos'è il cellulare?) se non all'ora di pranzo o della cena, perché il resto del giorno sono chini sui campi, oppure nei magazzini a coccolare le loro Rose vermiglie, sfogliandole via via fino a lasciarne soltanto il bocciolo.

Ma anche in quei momenti lì, di presunta pausa, si dipende pur sempre dai ritmi di un’antica economia domestica. «Ho le pentole sul fuoco, adesso le passo mio marito», si defila infatti la siora Anna passando la cornetta al marito.
Così, tirandogli fuori le risposte una a una («alla premiazione ci mando però mia moglie, sul palco», premette lui) Francesco ti racconta come in realtà non si sa bene da dove siano arrivati quei semi che insieme alla terra sono il solo capitale delle famiglie come la sua. Si narra che sia successo in un lontano giorno, nel 1800 e rotti. La leggenda (perché le cose belle godono sempre anche del beneficio accessorio di una leggenda) vuole che sia stato un angelo, in una notte di bora, a lasciarli cadere giù.

«Qualcuno dice che fossero stati portati qui dal Veneto (chissà?) per me resta tutto da chiarire”, si limita a dire Francesco. Si sa per certo che della Rosa ne scrisse, in alcuni suoi saggi dedicati a Gorizia e stampati nel 1873 a Vienna, un certo barone Carl von Czoernig definendo gli orti giuliani delle borgate di Sant’Andrea e San Rosso come «quelli a più alta redditività».

E citando tra i prodotti che se ne ricavavano già allora proprio «la cicoria rossastra che in autunno viene trapiantata nelle stalle dove è esposta al calore degli animali e dello strame ed è molto apprezzata nei mercati».
Dalla semina alla raccolta, un lavoro minuzioso

Non ha invece esitazioni, Francesco, nel descrivere tutte le innumerevoli fasi del suo lavoro. Pardon, della sua e della loro vita. Lo fa con parole inevitabilmente semplici, riuscendo tuttavia a spiegarti quella che è invece la complessità ancestrale di cui si diceva all’inizio. Proprio quella che nella loro desolante elementarietà urbana uomini e donne di città (gente che compra insalata prelavata e che considera sfizio o colpo di vita un untuoso happy hour, tanto per intenderci) non possono nemmeno immaginare.

Si viene a sapere, così, che tutto inizia tra marzo e metà giugno con la semina che - caschi il mondo - richiede l’attesa della luna calante e la consociazione con un’altra semina, quella dell’avena, che fungerà da protezione ai delicati germogli senza bisogno così di diserbanti o trattamenti vari.


Poi, sotto il sole d’estate, si rompono almeno due volte le zolle (erpicatura) e si attende l’arrivo dei primi freddi. In tal modo, sempre armati di infinita pazienza, dopo la crescita di cui si vedono già i primi concreti risultati a ottobre, con lo sviluppo delle foglie, è proprio il gelo quello che attendono con ansia le adorabili teste dure che si incaponiscono su questa terra.

«Servono almeno due brinate per passare dalla crescita alla maturazione», spiega il nostro. «Poi c’è la raccolta ed è finita lì», tirerebbe via il metropolitano di passaggio, con aria già seccata. Nemmeno per sogno. Sì, la raccolta ovviamente c’è, ma il lavoro vero inizia proprio adesso. Vezzeggiati come neonati in una nurserie, i mazzi di Rose vengono posti al riparo in un ambiente chiuso dove l’umidità e la temperatura - tra i 10 e i 15 gradi - si devono mantenere sempre costanti. Un tempo veniva usata la stalla e il calore dello sterco delle vacche faceva da termosifone e umidificatore naturale.
Oggi si ricorre a dei nidi di paglia, con una irrorazione quasi omeopatica, fino alla perfetta maturazione indoor. Poi è la volta soprattutto delle donne («Le nostre quote rosa», ironizza Francesco) e i mazzi vengono via via sfogliati, sfrondati, lavati e toelettati fino a quando, alleggeriti anche del 70% della loro massa iniziale, ne rimane soltanto il cuore: un bocciolo rosso, rorido, turgido e croccante.
Un prodotto tipico che non può diventare Dop

Qualcosa che meritava davvero di essere premiato davanti al mondo. Anche perché, per colpa dei nostri legislatori (quando si tratta dei frutti della terra la loro idiozia sembra sul serio volersi perpetuare nel tempo, come a volerci mandare a dire «guardate che siamo sempre noi») un prodotto come questo, per il semplice fatto di aver già ottenuto la qualifica di Prodotto tipico non può pretendere un altrettanto meritato marchio Dop.
«Non si può perché lo vieta l’articolo 5 della legge in materia» dice sconsolato Francesco. E allora vada a quel paese l’articolo 5, verrebbe da commentare. Ci vada lui e ci vada soprattutto chi lo ha scritto.


Intanto, negli orti di Gorizia, mentre quei fiori croccanti e vermigli prendono la via dei mercati e dei migliori ristoranti, altre mani “salvano” delicatamente da ciò che è rimasto dopo tutto quel lavoro la radice, con tutta la sua peluria. È tutto lì, il tesoro. Una volta trapiantata, infatti, produrrà nuovi semi, ulteriore contributo al capitale di famiglia. E da quei semi nasceranno altre storie, altre schiene chine sui campi, altre ragioni di vita per altrettanti Francesco e altrettante Anna. Per altrettante adorabili teste dure, insomma. Sperando che questa terra d’Isonzo continui a produrne ancora, di teste così, insieme con le sue Rose.

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Assenzio, la madre di tutte le erbe

Assenzio, la “madre di tutte le erbe”

 

 

Il nome Assenzio deriva

dal greco Absinnthion,

che significa privo di

dolcezza: la pianta non a

caso è considerata tra le

più amare al mondo. E’

una delle cosiddette erbe

di San Giovanni, nella cui

notte solstiziale si credeva

producesse dalle radici una

sorta di carbone capace di

proteggere dai fulmini e

dalla peste. Era considerata

antidoto contro i malefici,

se sistemata sull’uscio

di casa. Nella tradizione

cristiana l’Artemisia nel

paradiso terrestre tentò

di ostacolare il sentiero

del serpente verso Eva,

episodio che la ha resa

elemento di protezione

durante il cammino

spirituale e fisico di ogni

uomo. L’Artemisia cresce

lungo i sentieri: si usava

mettere dunque alcune

delle foglie nelle scarpe

prima di affrontare un

lungo cammino, per

combattere stanchezza e

sventura. Deriva da ciò,

pare, l’usanza di dipingere

foglie di artemisia sugli

sportelli delle carrozze,

pratica proseguita sulle

prime automobili sino

agli anni ’30 del 1900. In

Sicilia, ad Avola, le donne

formavano delle croci con

rametti di assenzio per

il giorno dell’Ascensione

come amuleti per la casa

e nelle stalle per rendere

mansueti gli animali.

L’infuso è infatti utile a

mitigare l’ira: e all’estate,

periodo di raccolta

dell’assenzio, corrisponde

il “temperamento bilioso”,

delle persone colleriche,

secondo la teoria dei

quattro umori. Il marchio

“Sancte Johannis”,

produttore dell’assenzio

La Grande Etoile celebra

nel nome i due Giovanni,

il Battista e l’Evangelista:

il primo per le erbe a lui

dedicate, il secondo come

patrono dell’alchimia.

Trattasi di un liquore di

prodotto esclusivamente

con fiori e foglie di

Artemisia Absinthium

raccolta sulle Alpi francesi

e lavorata artigianalmente.

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I fiori nel piatto

Dal giardino commestibile di Giusi Foschia di Zomeais alcune indicazioni su come raccogliere e utilizzare foglie e fiori

Iniziate sempre raccogliendo le erbe verdi (acetosa, chenopodio, portulaca ecc.), a me piacciono molto anche le piccole foglie o i boccioli delle viole con l’occhio. Poi vi immergete nell’aiuola fiorita dove secondo la stagione potete scegliere tra petali e fiori di tulipani, papaveri, begonie, hemerocallis, violette, uno alla volta con i loro colorati petali. I fiori, i boccioli e le foglie di nasturzio sono pepati, pungenti e perfetti per ogni sorta d’insalata. I fiori dei fagioli e dei piselli sono croccanti e hanno lo stesso gusto del giovane legume.

Quasi ogni fiore di erba aromatica dal rosmarino all’erba cipollina al timo può essere aggiunto per rendere aromatici i nostri piatti nelle cotture al forno. Poi ci sono i fiori di lillà, boccioli e petali di rose antiche, salvia ananas, fiori di acacia che si possono adattare come guarnizione o infusi nei dessert. Poi la violetta famosa per il suo alone romantico. Già i greci e i romani la utilizzavano nei loro banchetti e la coltivavano in giardini speciali che erano chiamati proprio violarium. In cucina si usano questi fiori per profumare insalate gelati e dessert (chi non conosce le violette candite?).

Per le insalate fiorite aggiungo all'insalata mista verde fiori di fagiolo, fiori di pisello, violette, fiori e foglie di nasturzio, foglie tenere e fresche di borragine. La ricetta esclusiva di zuppa con borragine di Emanuele Scarello de Agli Amici di Godia alla sezione ricette.

 Lavate l’insalata e i fiori (per l’insalata: se di campo non raccogliete più di cinque tipi diversi, una manciata generosa di acetosa, cerfoglio, portulaca, pimpinella, rucola selvatica può bastare): Prima di aggiungere i fiori togliete le parti verdi, poi uniteli all’insalata verde e condite con una vinaigrette con olio sale e aceto di mele, un cucchiaino di senape dolce, ma senza aggiungere altre erbe per non coprire il sapore dei fiori.

Info: 340 4901359

 

 

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Conclusa la 7° edizione di Oleis e dintorni

Ai piedi dell’abbazia di Rosazzo, in un paese che nel nome porta l’essenza delle radici storiche: Oleis (in friulano Vueli)  si è conclusa

la 7° edizione di Oleis e dintorni . “Regione ed Ersa si impegnano ad essere il punto di riferimento per il settore dell’olio di produzione locale. Un modello da estendere a tutti i prodotti con il marchio Tipicamente friulano”. Lo ha detto l’assessore alle risorse agricole Claudio Violino al convegno di chiusura della settima edizione di Olio e dintorni, manifestazione nata dalla collaborazione tra l’Assessorato alla Cultura e Turismo e la locale Associazione Arc Oleis & Dintorni, con il patrocinio della Regione con Ersa, Provincia di Udine e numerosi altri Enti, che ha visto la partecipazione di oltre 4 mila persone, nei suggestivi scenari di Villa Maseri ad Oleis (foto) e dell’Abbazia di Rosazzo. 

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