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aperture domenicali

  Lavorare di più, lavorare tutti. Iniziamo dai negozi?

Raddoppiando le domeniche aperte, i consumi crescono del 2 per cento

articolo di Carlo Stagnaro ripreso da Il Foglio del 20 febbraio 2011

Il diavolo della pianificazione commerciale sta nei dettagli della liberalizzazione. Il commercio è stato investito, negli ultimi 13 anni, da un forte vento di concorrenza, che però non ha spazzato via tutti gli ostacoli allora vigenti. Eppure, specie in un momento di crisi, c’è un che di ironico nello stare seduti su un tesoretto di crescita che non viene sfruttato per timore di scalfire il baule nel quale è rinchiuso. Per capire di cosa stiamo parlando, basta un dato: tra il 1995 e il 2003, la produttività americana è quasi raddoppiata, quella media europea ha avuto una crescita fiacca, mentre quella italiana è rimasta stabile o in calo. Più della metà del balzo americano è spiegato dal settore del commercio, in virtù di quello che Michele Salvati ha definito “effetto Wal-Mart”.


Diversi studi hanno evidenziato il nesso dell’assenza di restrizioni all’economia da un lato con l’aumento della produttività, dall’altro con la crescita economica. Parlando più genericamente di servizi, l’Ocse ha inserito l’Italia tra i paesi più rigidi. La buona notizia, allora, è che il superamento di quelle rigidità che nel passato avevano determinato la stagnazione italiana, è oggi la chiave della rinascita: già ora la parziale liberalizzazione della distribuzione commerciale è stata per esempio il più efficace presidio contro l’inflazione. Tra il 2003 e il 2008, secondo Federdistribuzione – a fronte di un’inflazione dell’11,8 per cento – le tariffe e i prezzi dei servizi relativamente poco concorrenziali sono lievitati del 25,2 per cento, mentre i prodotti di largo consumo confezionati hanno avuto un incremento appena superiore al 6 per cento.

L’arretratezza commerciale ha, dunque, costi enormi. Un’indagine curata da Roberto Ravazzoni – coordinatore di Ricerca presso il Centro di ricerche sui mercati e sui settori industriali (Cermes) della Bocconi – ha trovato che un allineamento agli standard europei nel solo settore alimentare potrebbe spostare quasi 6 miliardi di euro nelle tasche dei consumatori.

Allo stesso modo, le inefficienze nella distribuzione non alimentare determinano l’appropriazione di rendite per un totale di 2,5 miliardi di euro. Se poi si aggiungono gli altri beni che vengono distribuiti in modo antiquato – dai carburanti ai farmaci, passando per le resistenze contro gli ipermercati – si arriva a quantificare un potenziale “risparmio complessivo di quasi 23 miliardi di euro all’anno (equivalenti al 2,5 per cento dei consumi totali delle famiglie nel 2008) che, tradotti nel budget di ogni singola famiglia, significa minori uscite nell’ordine di 930 euro annui”.
Ma in cosa consistono le restrizioni a monte di una simile distruzione di benessere? Al di là delle patologie tipiche del paese – dagli eccessivi costi amministrativi alla pressione fiscale – vi sono aspetti peculiari: limitazioni agli orari di apertura, ingessature sotto il profilo lavoristico, e soprattutto la reintroduzione, per mezzo delle normative regionali o dell’uso aggressivo delle regolamentazioni urbanistiche, di quelle forme di protezionismo che sono state cancellate a livello nazionale, e che l’Antitrust ha più volte denunciato.

Come ha scritto Serena Sileoni, dell’Istituto Bruno Leoni, “il legislatore ha previsto misure più di semplificazione che non di liberalizzazione, o comunque misure di liberalizzazione sottoposte a vincoli, deroghe o possibili interventi di regolazione che ne hanno stemperato fin dall’inizio la natura riformatrice”. Oltre tutto, la centralità delle Regioni e dei Comuni è solo in parte spiegabile con l’architettura del Titolo V della Costituzione, ma per il resto deriva da resistenze lobbistiche che non hanno faticato a trovare orecchie attente in Parlamento.  Un caso clamoroso è quello della limitazione degli orari di apertura.

Anche se questi vincoli nascono generalmente da decisioni regionali, sono resi possibili dall’impalcatura nazionale che – tra l’altro – limita le aperture alla fascia oraria dalle 7 alle 22, fissa un tetto di 13 ore giornaliere, e regolamenta minuziosamente le aperture domenicali riducendole al solo mese di dicembre e altre otto festività nell’arco dell’intero anno, tranne che per le località turistiche. Il paradosso è che nessuno di questi vincoli produce beneficio visibile. Il Cermes ha stimato che, semplicemente portando a 28 (dalle attuali 14) le aperture domenicali consentite, i consumi aumenterebbero dell’1,96 per cento, producendo la crescita dello 0,29 per cento del pil e la creazione di 9.000 posti di lavoro nella grande distribuzione e 13.000 nella distribuzione tradizionale.

La differenza tra Italia ed Europa è, peraltro, molto concreta. Si prenda il caso dei carburanti. La nostra rete è obsoleta: abbiamo impianti più piccoli e più numerosi (7,27 ogni 100 chilometri quadrati, mentre sono 2,68 in Francia, 4,05 in Germania e 3,76 nel Regno Unito) con un basso erogato medio (1,8 milioni di litri, che salgono a 3,6 a Parigi, 4,3 a Berlino e 4,1 a Londra). Ciò nonostante, i nostri benzinai guadagnano meno, perché solo il 24 per cento vende anche prodotti non oil, contro il 36 per cento dei francesi e la quasi totalità di inglesi e tedeschi. Da noi la quota di mercato della grande distribuzione organizzata è appena dello 0,2 per cento (è invece il 10 per cento in Germania, il 36 per cento nel Regno Unito e il 52 per cento in Francia) e la penetrazione del self service è ridotta (29 per cento, mentre altrove è quasi sembra vicina al 100 per cento). Per legge, non si possono offrire giornali e tabacchi, due beni chiaramente complementari al “pieno”. Da ultimo, le nostre stazioni sono aperte meno di 3.000 ore all’anno, che altrove oscillano tra le 5 e le 6.000.

Semplicemente, i benzinai italiani vendono meno,
hanno meno prodotti, lavorano meno ore al giorno e meno giorni all’anno dei loro colleghi europei. Ciò rende più poveri gli italiani, e più poveri i benzinai. La distribuzione dei carburanti è paradigmatica: troppe cose sono regolamentate troppo.

Il problema è che non solo la Costituzione, ma anche la legge ordinaria definisce l’ordito entro cui si svolgono le trame anticompetitive delle regioni. Sono infatti consentiti interventi più o meno selvaggi, ora dal lato dell’organizzazione e dell’esercizio del commercio, ora da quello urbanistico, che prescindono dagli aspetti che è normale siano normati, come la sicurezza.

Ci vorrebbe, forse, una legge di un solo articolo: nessuno può impedire a nessuno di avviare un esercizio commerciale, organizzarsi come gli pare, e scegliere liberamente quando tenerlo aperto e chiuso. Diceva Milton Friedman che “the business of business is business”.

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