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Torniamo alla semplicità!

Sono stufo, sacrabolt! O 'nd ai une ingomie, j'en ai marre, I'm fed up with... Di tutti questi chef che non hanno nulla da dire e nulla da comunicare se non la propria autoreferenzialità. Almeno una volta c'erano le attricette e le starlette la cui ocaggine stimolava il sorriso, le testimonial coscialunga e cervello corto che comunque facevano arredo, simpatico corollario alla festa del persutto o alla sagra del vino. Oneste comparse che non si permettavano di sbandierare filosofie del gusto e, ricevuta la giusta mercede, tornavano da dove erano venute. Le chiamavano anche "madrine" dell'avvenimento e mo' questi chef che impazzano come li chiamiamo? Propongo "padrini"; senza allusioni, dio me ne guardi, alla nota associazione la cui culla è in quell'isola mediterranea a tre punte.
E poi tutte quelle riviste, tutte quelle riviste di cibo, cucina, culinaria, con foto di chef che nulla hanno da dire sul cibo, sugli alimenti, sulla nutrizione, che fingono di non sapere che cosa hanno ogni giorno nel piatto i comuni mortali.
Vi fanno sognare? Si vede che le mie lettrici non hanno nulla di maggior spessore a cui aggrapparsi nella loro solitudine affettiva. A me le attricette e le starlette non mi facevano certo sognare; roba virtuale: vuoi mettere la tabaccaia, la salumiera, la bottegaia, la cameriera, e quel nutrito manipolo di frutis, fantatis e feminis con l'abbronzatura da fienagione.
E poi tutte quelle ricette, quelle migliaia di ricette, quella pletora di ricette che ci bombardano, ci mitragliano, ci assillano, ci tormentano, ci sommergono, ci soffocano. Aiuto, affogo, salvatemi, lanciatemi una cima, non ne posso più. To', ecco qua, ho preso una rivista a caso: mensile, carta superpatinata, foto bellissime di piatti complicati con ingredienti da lanterna di Diogene, 94 pagine di cui 32 di pubblicità e 62 ricette. Una ricetta per pagina in media. Fanno 744 ricette all'anno. Ne campassi mille di anni non riuscirei ad assaggiarne (ma varrebbe la pena?) neppure una minima parte. Ammettiamo che esista ancora una casalinga a tempo pieno: quante riuscirebbe ad ammannirne al marito operaio, vetraio, barbiere, salumiere, infermiere, insegnante, postelegrafonico, idraulico, operatore ecologico, chirurgo, faccendiere che torna a casa stanco e incazzato e si ritrova due forchettate di una roba che è stata denominata "stupore di verza e bucce caramellate di cocomero" o "tortino gratinato di cavoletti di Bruxelles in crema di soia gialla e lenticchie di Poggiobigonzo"?
La povertà lessicale la fa da padrona e, quindi, le ricette sono sempre "sfiziose", mentre i piatti degli chef ti danno sempre "emozioni". Ho una stufa della parola "emozione", di solito al plurale, che quando la incontro chiudo la rivista e la butto nella carta da riciclare. Quanti alberi ci costano tutte queste scemenze?
Buondio, torniamo alla semplicità! Ad esempio polente rustide e une slepe di formadi. Solo il profumo di quella polenta vale tutte le contorte e improbabili invenzioni, anzi creazioni, dei vostri amati chef e delle tanto diffuse riviste. È un piatto completo: ha l'energia (amido del mais, grassi del formaggio), le proteine (soprattutto nel formaggio) e una buona dose di vitamine che potete corroborare con una quantità ad libitum, facciamo une pladine, di lidric cul poc. L'accompagnamento ideale è un vinello sfuso, 12 gradi al massimo.
Sono alimenti semplici, cheap e, lo sottolineo con forza, sfiziosissimi, per giunta suscettibili di far detonare tante emozioni che neanche un concerto di Bach. Se fossi un parolaio vi direi che lì dentro c'è la nostra storia, la nostra cultura e la nostra anima, ma non ve lo dico: mangje e tâs diceva mio nonno (e anche il vostro).
Certo che non potete nutrirvi, ed emozionarvi, ogni giorno con polenta rustide e formaggio: il dietista, la dietologa e l'imperante bovarismo non ve lo concedono. E allora seguite i consigli di un foodblogger che magari vi propone un muesli croccantissimo con noci dell'Eritrea e semi di saraceno tostati sulla fiamma ossidrica. La realtà è che, voi, mortali comuni, andate al centro commerciale dove trovate scatolette e vaschette, roba pronta e semipronta nella plastica, con un elenco di ingredienti in etichetta lungo come il Passio nel quale non ci capite niente, e il naufragar vi è dolce in tutta quella prosa di chimica organica e inorganica.
Ancora una volta, viva la semplicità! Quali sono le componenti del formaggio? Latte, caglio e sale. Vonde, ça suffit, that's all. E il prosciutto crudo? Coscia di suino e sale (vabbè, metteteci anche il tempo). Quando si superano le tre componenti c'è da drizzare le orecchie. Quanto alla polenta è fatta con farina di mais, acqua e sale. C'è anche l'olio di gomito, ma con le moderne tecnologie si può farne a meno. No, signorina, non è una app, è una roba che gira a elettrico; ma, se lo desidera, può trovare una discreta polenta anche in supermarket: dura sette giorni e, per farla rustide, non serve che tacci lo smartphone, chieda alla nonna.
Mai che dietiste diplomate, dietologi laureati, chef paludati, accademici intronati, riviste patinate vi spieghino che cosa c'è dietro le quinte o dietro l'angolo.
Tutti mi guardano come ebeti se dico, e.g., che Parmigiano Reggiano e Grana Padano non sono la stessa cosa. Visto che non sapete la differenza care lettrici? Chiedete lumi allo chef ammaliatore, al foodblogger incantatore, al guru di alta cucina seduttore; al noto gazzettiere direttore, al sedicente scientifico divulgatore, all'esperto di cibo di tutte le ore, all'alimentare educatore e, fuor di rima, al tecnico del benessere nutrizionale, al paganini delle pentole, al solista delle pignatte, all'asintattico food writer de noantri, al culinario giornalista specializzato (dice lui), al cuoco macrobiotico (ora un po' fuori moda, in verità), al grammatico delle vellutate, al cuciniere tantrico, al pentoliere ayurvedico...
Ma perché non fate uso delle papille gustative che avete in quella boccuccia di fata e non cercate di capire il concetto di filiera? Già, la filiera di cui nessuno vi parla; eppure sta tutto lì.

Nota etimologica
La parola chef viene dal francese chef nel senso di chef de cuisine, cioè 'capocuoco'; l'origine è la medesima dell'italiano 'capo' e del friulano cjâf che derivano dal latino caput 'testa'. L'abbiamo adottata non perché è francese, ma perché la usano gli americani. Uno dei tanti segnali della colonizzazione culturale, e non solo, nella quale ci crogioliamo bullandoci del Made in Italy.



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